Ti seguirò per sempre

Il teorema del calcio vissuto dagli spalti di uno stadio. Quando il sacro si mischia al profano e la partita diventa una liturgia...
tifosi

Seguire la propria squadra del cuore è un fatto che ci fa tornare bambini, permettendoci di rievocare vecchie emozioni collegate ad un goal, al nome di un giocatore o a una semplice figurina da appiccicare in maniera approssimativa nella casella dell’album dei calciatori. Per un attimo è concesso fuggire dalla realtà e dalla routine della vita perché… inizia la partita.

 

I misteri del calcio sono racchiusi tutti dentro il pallone, che assume i contorni e la fisionomia fantastica della “lampada di Aladino”. Perché ogni tifoso nutre un desiderio per la sua squadra: una vittoria, un goal al novantesimo, lo scudetto, una grande coppa o la promozione alla serie superiore, fino ad arrivare in serie A.

 

Fiumi di gente in coda davanti ai tornelli in attesa di timbrare il biglietto, gruppi di persone che dal centro città a piedi, in bicicletta, in autobus, in macchina o con lo scooter si spostano nella prima periferia, dimora al giorno d’oggi degli stadi. Tutti in cammino fino ad arrivare all’ingresso, magari intasando gli incroci o costringendo agli straordinari il prefetto. Questo è il pellegrinaggio sportivo che conduce al “tempio”, dove gli ultrà che sono già dentro scaldano l’atmosfera con i cori della curva, snocciolati come le litanie del rosario (anche se con il rosario hanno poco da spartire).

 

Il tifo è una effervescenza collettiva, il “dodicesimo uomo in campo”, uno degli oggetti sacri del rituale sportivo che si consuma durante la partita. Tutto inizia quando l’arbitro fischia e i giocatori si muovono dal cerchio di centrocampo. Urlando, cantando, incitando, sventolando una bandiera dagli spalti della tribuna o dalla gradinata della curva ci si sente parte di una grande famiglia, la comunità dello sport, e al tempo stesso si diventa membri di un partito, di una fazione, che sposa colori, stendardi, simboli locali e l’identità di una intera città.

 

Riflettendoci bene, la partita di calcio viene “caricata” dall’onda emotiva della folla. Sembra banale, ma tanto più il match è importante tanto più saranno numerosi gli spettatori impegnati a tessere la tela immaginaria che li lega agli uomini in campo. E così tutto acquista un senso perché i giocatori indossano i panni degli attori che si esibiscono su un palcoscenico verde, fatto di erba rasata a puntino. E dagli spalti il pubblico applaude, approva o rifiuta le scelte dell’allenatore o ancora si identifica nel proprio beniamino. La partita raggiunge il suo stato naturale solo alla presenza degli spettatori. Che noia le partite a porte chiuse!

 

E quando il tifo si spegne capita che magari è il capitano a girarsi verso la curva “svegliando” gli ultrà, agitando le braccia, per reclamare consenso in una fase di gioco difficile o delicata.

 

Ma si sa, il tifo è una medaglia che ha sempre due facce, in questo caso una “bianca” e una “nera”. Quest’ultima assume i contorni della contestazione, sposa i toni della critica distruttiva; riprendendo le parole di Gianni Rivera: «Di colpo gli adoratori di sette giorni fa si trasformano in denigratori, in nemici accaniti». Il più delle volte però è la fede, l’amore sconfinato per la propria squadra a prendere il sopravvento e d’incanto «si vede bianco anche quando è nero». «Il tifoso ha le caratteristiche del genitore del figlio unico: adora la sua creatura anche se è brutta», scrisse il giornalista Nino Nutrizio.

 

Ecco perché anche quando le cose vanno male ci sarà sempre qualcuno disposto a far tremare gli spalti dello stadio…

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