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Firme > Tempi inquieti

L’alto valore del basso impatto

di Luigino Bruni

- Fonte: Città Nuova

Pubblichiamo un contributo del n. 7/2025 della rivista Città Nuova, sull’importanza della stima sociale che dovrebbe meritare chi si dedica alle attività di cura

Una delle nuove parole chiave del nostro tempo è “impatto”. Tutto ciò che facciamo deve avere un impatto, e più alto è l’impatto di un’azione, più questa vale, da ogni punto di vista. Siamo misurati e valutati sulla base dell’impatto esterno che hanno le cose che facciamo. Questa moda è un effetto collaterale di un cambiamento culturale ed etico molto più ampio, al quale dedichiamo in genere poca attenzione, e che riguarda da vicino una dimensione, questa sì, davvero decisiva: la cura. In una società che invecchia, e che quindi vede e vedrà persone vivere molti anni e decenni in una condizione stabile di richiesta di aiuto ad altre persone (oltre che a dei robot e degli algoritmi) che si prendono cura di alcune dimensioni della loro vita, il tema della cura sta esplodendo, da ogni punto di vista.

Si inizia seriamente a pensare – come fa da tempo la filosofa canadese e mia amica Jennifer Nedelsky – che l’evoluzione delle forme e degli orari del lavoro debbano essere pensati insieme all’evoluzione della cura. Dovremo lavorare tutti meno, e contemporaneamente tutti dedicare più tempo alla cura nostra e degli altri che vivono nella nostra comunità. Non più di 30 ore di lavoro remunerato alla settimana, ma non meno di 12 ore di cura, gratuite. Perché se non iniziamo tutti, uomini e donne, ad occuparci di chi ci sta attorno, continuando a rimandarlo (ieri) alla famiglia, alle donne, allo Stato, e (oggi) al mercato, la qualità della vita che ci attende sarà destinata a peggiorare.

Ma la necessaria rivoluzione della cura si imbatte con il grande problema dell’impatto. Le attività di cura, infatti, sono attività a basso impatto. Trascorrere del tempo a parlare con un genitore anziano, a giocare con un bambino, ma anche a stirare o ad occuparsi del giardino, sono tutte attività di cura che generano impatto all’interno di una, due o poche persone. E così accade che più una persona fa un lavoro importante, quindi ad alto impatto, meno è portata a dedicare tempo alle attività a basso impatto della cura. Quell’ora che dedico a fare una lavatrice potrei infatti occuparla a fare una riunione del consiglio d’amministrazione, a scrivere un articolo o un post su Facebook, che hanno un impatto molto più alto dell’igiene personale. E così, se ho abbastanza denaro, pago una persona povera che ha bisogno di lavorare, scarico su di lei i miei doveri di cura e uso il mio tempo per attività a maggiore impatto, economico o sociale. Sta già nascendo tutto un mercato di persone povere o giovani che a pagamento vanno a stare due ore con un genitore che io non riesco a visitare per mancanza di tempo, nuove figure che si aggiungono a badanti, domestici, e tutta quella gran quantità di servizi già sorti per farci risparmiare tempo che possiamo usare per far cose che per noi hanno maggior valore e impatto.

Si sta così delineando un mondo sempre più polarizzato tra chi ha denaro e non si occupa di cura, e chi non ha denaro e il tempo che ha lo deve dedicare per curare (a pagamento) gli altri. Un mondo che rischia di tornare quindi molto simile a quello pre-moderno, fatto di pochi ricchi con tanta servitù.

Per evitarlo è necessaria una vera rivoluzione culturale, a partire dalla scuola e dalla famiglia. Iniziare a stimare socialmente le persone che si dedicano alla cura. Oggi un manager che dica all’impresa: «Riduco l’orario di lavoro perché mi devo occupare dei miei genitori anziani», non agevola di certo la sua carriera, soprattutto se a dirlo è un maschio. Dovrebbe invece accadere qualcosa di simile a quanto, almeno nei Paesi del Nord Europa, sta succedendo con i congedi parentali. «Venti anni fa, quando ebbi il primo figlio, i miei colleghi rimasero molto stupiti per la mia richiesta di congedo parentale – mi raccontava un mio collega, uomo, dell’università di Stoccolma –. Ma oggi, se per il mio ultimo figlio appena nato non chiedessi il congedo, i miei colleghi resterebbero scandalizzati». Per la cura dei bambini questa rivoluzione è già in atto.

Dobbiamo estenderla ad ogni forma di cura, fino a dire ai nostri colleghi: «Ho ridotto il mio orario di lavoro per occuparmi di mio padre, per curare il giardino, per cucinare a casa, per trascorrere qualche ora con gli anziani del condominio».

Una scelta che dovrebbe essere sostenuta politicamente da salari orari più alti, certamente in Italia, e da molta stima sociale. Ma prima c’è bisogno di una rivoluzione culturale: imparare tutti l’alto valore delle attività a basso impatto.

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