Teissier: cambiamento, non violenze

Intervista al vescovo emerito di Algeri, uno dei più acuti osservatori del mondo arabo
Algeria

Mons. Henri Teissier è stato a lungo arcivescovo di Algeri, una delle voci più ascoltate del cattolicesimo in terra araba. Durante la stagione del terrorismo, 1992-2000, non ha voluto lasciare il Paese, celebrando anche funerali per le vittime cattoliche della violenza terrorista, condividendo con le popolazioni locali il dramma di rapimenti, assassinii, soprusi. Lo incontriamo durante una sua visita in Italia.
 
Mons. Teissier, qual è stato e qual è l’atteggiamento degli algerini di fronte alla “transizione araba”?
«La popolazione algerina ha seguito e segue con grande interesse gli avvenimenti della cosiddetta rivoluzione araba. Nel 2011 e nel 2012, sono state non poche le manifestazioni di gruppi che chiedevano un cambiamento, soprattutto ad Algeri. Ma la massa della gente non ha seguito queste élite, perché l’Algeria ha avuto 150 mila morti nella stagione del terrorismo, e la gente vuole sì dei cambiamenti, ma assolutamente non vuole la violenza. Anche i risultati delle ultime elezioni non sono stati da poco, riscontrando un arretramento dei partiti islamisti, anche se federati in una “Alleanza verde”. Il risultato sorprendente è dovuto senza dubbio al fatto che i giovani in gran parte non hanno votato, mentre adulti e anziani si sono diretti verso la sicurezza del voto convergente sul vecchio partito Fln».
 
E i giovani?
«I giovani algerini sono stati felici per le prime manifestazioni di libertà in Egitto e in Tunisia, e anche in Libia; ma in Algeria c’era già una certa libertà di stampa e un certo pluralismo politico. Lo Stato ha cercato di capire in che direzione andare, con consultazioni di vario genere, a cui io stesso sono stato invitato. Anche la stampa si è interessata alla mia proposta, che metteva l’accento sul bene comune e sul suo raggiungimento condiviso».
 
Quest’anno Tlemcen è stata scelta come capitale culturale islamica…
«È un simbolo dell’importanza che per le popolazioni arabe del Nord Africa ha acquistato il ritorno alla società islamica e alle sue convinzioni tradizionali. Colloqui, film, teatro, feste popolari, musiche tradizionali, cerimonie sufi: tutto sembra portare in questa direzione, verso un passato che inorgoglisce. Sono state manifestazioni molto seguite dalla popolazione – ora io stesso vivo a Tlemncen –, quasi come fosse un bisogno per tutti ritrovare una propria identità tradizionale. Ciò non vuol dire tornare solo alla shari’a, ma anche alla tradizione sufi, ad esempio, alla mistica tanto amata dalla gente. C’è insomma un ritorno a tutta la tradizione musulmana, a cominciare dalla legge islamica, che viene di nuovo insegnata nelle moschee, frequentate dalla maggioranza della popolazione. E i cinque pilastri vengono vissuti di nuovo. C’è anche il ritorno alle tradizioni quotidiane, al culto per gli antenati, alla frequentazione giornaliera dei mausolei».
 
Tradizione, cioè oscurantismo e violenza?
«No, non bisogna pensare che questo ritorno alla tradizione voglia significare un ritorno all’intransigenza e alla violenza. Al contrario, sembra che vi sia più tolleranza e disponibilità al dialogo. Accanto all’occupazione della giornata con pratiche e cavilli giuridici, cresce anche il bisogno di spiritualità. E anche un certo smarrimento: usano Facebook e Twitter per collegarsi con il mondo salafita tradizionale, ma anche per entrare nella modernità occidentale. Ma sono più numerosi coloro che frequentano i siti salafiti».
 
E come vive questa transizione il piccolo gregge dei cristiani?
«I cristiani sono non poco cambiati dalla crisi del 1992-2000. Sono sempre poche migliaia in Algeria, ma la maggioranza non è più costituita da europei, quanto da studenti e lavoratori dell’Africa sub-sahariana, molti dei quali sono clandestini, avendo come mira l’Europa ma non riuscendo ancora ad arrivarci. Senza dimenticare i tantissimi filippini che lavorano nei cantieri e nelle case dei ricchi».
 
Fanno presa i modelli stranieri?
«I modelli stranieri – penso alla Turchia o al vicino Marocco – non hanno molta presa. Non c’è il sogno del califfato, il sogno di una Turchia islamica e democratica è un sogno tutto europeo, non certo di queste popolazioni. Qui, come dicevo, c’è un ritorno alla shari’a, dopo l’abbuffata del socialismo e la stagione della violenza. Per questo nel rapporto dialogico con gli algerini bisogna rispettarli completamente nella loro ricerca, cercando relazioni vere, non colonialiste, non da superiore a inferiore. Da uguali. Per un futuro accettabile da tutti».
 

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