Fra i vari neologismi a cui ci ha abituato l’epoca della tecnoscienza e del mondo digitale, ce n’è uno che, per il suo significato così peculiare e attuale, merita di essere riscoperto e messo in evidenza: tecnoliquidità. Questo termine, coniato nel 2013 da Tonino Cantelmi [1] – psicologo, primo in Italia a studiare il fenomeno delle tecnodipendenze e l’impatto delle tecnologie digitali sulla mente umana – nasce dall’incontro ineluttabile fra due fenomeni complementari: la visione “liquida” del mondo, metafora illuminante di questa nostra epoca, e la rivoluzione digitale.
L’immagine di una società liquida in un mondo liquido descrive bene tutto l’insieme di relazioni, modalità, approcci, che non trovano una forma stabile e solida, ma si modificano in continuazione senza trovare un riferimento fisso, proprio come un liquido che si adatta a seconda del contenitore nel quale viene versato o si spande se non trova qualcosa che riesca a contenerlo. È questo il particolare contesto culturale e sociale che il sociologo Zygmunt Bauman ha ben fotografato nel 2000 con il termine “liquidità” [2] ed è in questo contesto che si è inserita la rivoluzione digitale, almeno a partire dal fenomeno di massa seguito all’invenzione e allo sviluppo di Internet a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.
L’analisi di Cantelmi evidenzia molto bene come le innovazioni tecnologiche, con la loro pervasività e il loro modo di interagire con le nostre abitudini, provocano inevitabilmente un cambiamento sul nostro modo di agire, relazionarci, pensare, e nel lungo periodo vanno a riorganizzare le nostre strutture neuro-cognitive.
La cosiddetta “Generazione Z” (quella dei nati fra il 1994 e il 2004) rappresenta da questo punto di vista uno spartiacque: è la generazione dei “nativi digitali“, individui che, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie e delle nuove interfacce, hanno iniziato a sfruttare il cervello in modo diverso rispetto alle generazioni precedenti. Le modalità di apprendimento delle nuove generazioni, così allenate dalle interfacce digitali e dai video-giochi, sono più percettive, meno simboliche, e le loro abilità visivo-motorie sono superiori [3]. Tutto questo non significa diventare più intelligenti, ma sviluppare l’intelligenza in modo diverso, anche dal punto di vista cognitivo, con vantaggi e svantaggi a seconda del contesto.
Nel mondo iperconnesso nel quale siamo immersi «solo i nativi ragionano in modo veramente adeguato al contesto attuale, poiché sono già da sempre digitalmente orientati» [4], ma dal punto di vista della costruzione identitaria del “sé” e del “noi” – cioè di tutto quello che riguarda l’individuazione dell’identità personale e sociale/relazionale – la continua trasposizione digitale e la conseguente sovrapposizione fra reale e virtuale, condizionano fortemente le nuove generazioni su domande antiche quanto l’homo sapiens: “chi sono io?” e di conseguenza: “chi sono gli altri-da-me?” [5].
Se oggi, dal punto di vista dell’utilizzo delle tecnologie, assistiamo al fenomeno in cui le nuove generazioni sembrano genitrici di quelle precedenti, sul fronte della “solidità” identitaria – contrapposta alla “liquidità” – il primato dovrebbe tornare alle generazioni adulte. Ma avviene davvero così?
Le domande esistenziali sul “sé” e sul “noi” si sono ripresentate, per tutti, con più forza proprio in questo particolare periodo pandemico: le condizioni di isolamento dovute al contenimento dei contagi hanno infatti portato la gran parte di noi a sperimentare in modo massiccio l’interazione con gli altri attraverso mezzi digitali e in breve tempo abbiamo capito che alla fine è ineludibile fare i conti con la solitudine esistenziale dalla quale non ci salvano i social network: il bisogno di relazioni vere, reali, e l’incontro con l’altro-da-sé, sono qualcosa di irriducibile che non può trovare sostituzioni virtuali in grado di eguagliare la presenza e il calore umano.
Tra virtualizzazione liquidificante delle relazioni e necessità esistenziale di esse, restano dunque aperte tante domande: potrà il digitale, un giorno, portarci ad un cambiamento evolutivo della personalità? Se la tecnoliquidità diventerà sempre più pervasiva potremo dire, un giorno, di essere ancora così “umani” come intendiamo oggi? Affogheremo nella tecnoliquidità o rimarremo a galla imparando a nuotare in questo mare di cambiamenti?
Sono domande che avremo sempre davanti a noi e che dobbiamo continuare a porci per poter entrare più profondamente nel grande mistero che è la persona umana. Le risposte vanno cercate facendo leva sulla nostra capacità di equilibrio e sulla ricerca di solidità, nella consapevolzza che ci sono e ci saranno sempre dei riferimenti immutabili che caratterizzano il nostro modo di essere.
«I cambiamenti non devono far paura, purché si proceda tenendo sempre in mente la forma umana» [6]; una forma che incarna/riflette/esprime la certezza che, anche se non siamo ancora tutti nativi digitali, siamo e saremo sempre nativi relazionali.
[1] T. Cantelmi, Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida, San Paolo, Milano, 2013
[2] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002.
[3] cfr. T. Cantelmi, Op. cit. p. 43
[4] Ibid. p. 32
[5] cfr. Ibid. p. 44
[6] Ibid. p. 149