Taranto “zona di sacrificio” e la politica industriale in Italia

Sul futuro del centro siderurgico dell’ex Ilva di Taranto si confrontano due visioni alternative di società ed economia. Presidio delle associazioni ambientaliste davanti la prefettura il 17 gennaio. Sciopero dei sindacati il 19 gennaio con assemblea a Roma davanti al ministero delle Imprese e del made in Italy
Taranto, foto associazione genitori tarantini Autore Dario De Dominicis

Il nuovo anno per la ex Ilva di Taranto è cominciato come nel passato con un decreto, il numero 2 del 2023 recanti “misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale”, che prevede uno scudo penale per i gestori dell’enorme acciaieria sorta negli anni 60 accanto alla bella città dei due mari.

Foto La Presse

In particolare si prevede «la non punibilità della condotta dei soggetti che agiscono al fine di dare esecuzione a provvedimenti che autorizzano la prosecuzione dell’attività produttiva di uno stabilimento industriale dichiarato di interesse strategico nazionale».

Si tratta di una condizione ritenuta necessaria da Acciaierie d’ Italia, assieme ad un prestito ponte del governo di 680 milioni di euro, per dare continuità all’attività industriale nonostante gli evidenti problemi ambientali che incidono sulla salute della popolazione, soprattutto sui più giovani.

Ci troviamo periodicamente davanti al caso più emblematico in Italia di politica economica e industriale di un’area produttiva estesa per oltre 15 chilometri quadrati.  Il centro siderurgico più grande d’Europa.

Nata come impresa pubblica, l’Ilva è stata ceduta in gestione, nell’era delle privatizzazioni, al gruppo Riva e poi affidata, nel 2018, al colosso franco indiano di Arcelor Mittal dopo un periodo di commissariamento pubblici resosi necessario dopo le condanne penali inflitte alla proprietà per disastro ambientale.

Lo stato è di nuovo rientrato nel 2021 nella gestione del centro siderurgico tramite la partecipazione di minoranza di Invitalia con l’impegno assunto dal governo Draghi di prendere il controllo della società nel 2024 con l’acquisto della maggioranza del pacchetto azionario. Garante di questo percorso è il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, molto vicino a Draghi e non messo in discussione, finora, dal giro di nuove nomine previste dal governo Meloni.

Foto Roberto Monaldo / LA PRESSE

In una recente intervista rilasciata alla Gazzetta del Mezzogiorno, Bernabè ha ribadito che «l’acciaio primario (quello prodotto dal ciclo integrale a partire dai minerali e non dai rottami, ndr) ha futuro in Italia, oltre a l’Ilva non c’è nessuno che lo faccia».

Secondo lo storico manager, già ai vertici di Telecom ed Eni, l’acciaio dovrà essere prodotto con tecnologie “più verdi” ma per compiere questa operazione è necessario che l’attività non si interrompa perché «i capitali devono venire in primis dalla produzione. Servono 5-6 miliardi di investimenti, non comprendendo le energie rinnovabili e l’idrogeno, e vanno alimentati dalla cassa generata dalla stessa Ilva».

In altri interventi Bernabè ha previsto un tempo di realizzazione di una decina di anni, precisando che, ad ogni modo, non crede che «lo Stato voglia imbarcarsi nel gestire un progetto di queste dimensioni, lo ha detto con chiarezza il ministro Urso. Lo Stato deve garantire l’impulso e il coordinamento a un progetto ciclopico, dalla complessità enorme».

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

La statalizzazione della ex Ilva è, invece, richiesta a garanzia dell’occupazione e degli investimenti dai sindacati. Tutte le sigle, ad eccezione della Cisl, hanno proclamato un giorno di sciopero per il 19 gennaio e organizzato in quel giorno una manifestazione a Roma davanti alla sede del ministero delle imprese e del made in Italy (ex Sviluppo economico).

Al pari del rappresentante di Arcelor Mittal, Bernabè non è intervenuto nei dibattiti promossi nell’ottobre 2021 a Taranto durante la settimana sociale dei cattolici italiani incentrata su “Ambiente, lavoro e futuro”. Ci ha pensato, comunque Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica di Confindustria, a ribadire l’importanza strategica di mantenere il ciclo dell’acciaio in Italia.

Franchi è intervenuto dopo un’intensa testimonianza offerta dalla pediatra Anna Maria Moschetti che, numeri epidemiologici alla mano, ha evidenziato il livello inaccettabile di percentuali di tumori che colpiscono, in particolare, i più piccoli a Taranto. «La vita di un bambino vale più di tutto l’acciaio del mondo» ha detto, come riportato su Città Nuova, la dottoressa Moschetti che è, tra l’altro, presidente della Commissione per l’ambiente dell’Ordine dei medici di Taranto.

Per la sua dedizione ultratrentennale attività professionale la Moschetti ha ricevuto, a dicembre 2022, il premio di ambientalista dell’anno da parte di una giuria composta da Legambiente e da diverse associazioni di Casale Monferrato, cittadina dell’alessandrino segnata dal temibile inquinamento prodotto da decenni di produzione di Eternit.

La denuncia pubblica della situazione insostenibile a Taranto, espressa nel 2021 durante le settimane sociali e cioè in un assemblea nazionale con discreta copertura mediatica poneva l’urgenza di un intervento immediato grazie ai fondi del Pnrr in aggiunta alle risorse del Just transition fund destinate, in sede europea, alle aree di crisi dell’ex Ilva e dell’area mineraria del Sulcis in Sardegna.

L’area di Taranto è alla ribalta mondiale tanto da essere inserita tra “le zone di sacrificio” illustrate nel Rapporto del consiglio per i diritti umani dell’ONU reso noto il 12 gennaio 2022. “Zona di sacrificio” è un termine legato al periodo della guerra fredda per indicare le aree rese inabitabili da esperimenti nucleari. Nel rapporto Onu si afferma che «le zone di sacrificio rappresentano la peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno Stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile».

Anche la Corte europea per i diritti umani ha condannato l’Italia per IL caso dell’inquinamento provocato dall’ex Ilva in una decisione del 2019 e in una più recente del maggio 2022.

Condanne e denunce che restano nel campo dell’obbligo morale e dell’invito ad operare con urgenza mentre la situazione resta sempre molto compromessa, come dimostra il fatto che ad inizio gennaio è intervenuta l’Agenzia di protezione ambientale di Puglia intimando ad Acciaierie d’Italia, di adottare «tutti i possibili interventi correttivi di riduzione delle emissioni di benzene», un cancerogeno presente in quantità preoccupanti nelle rilevazioni compiute dall’Arpa e anticipate da Alessandro Marescotti di peacelink  grazie ad un monitoraggio dell’inquinamento promosso in maniera autonoma dalla società civile organizzata.

Il mondo delle varie sigle dell’associazionismo tarantino si è ritrovato di nuovo unito nel promuovere il 17 gennaio un presidio in città davanti alla Prefettura per ribadire di ritenere «inaccettabile la proposizione di un modello di produzione definito “green” da realizzarsi tra molti anni, lasciando consapevolmente e colpevolmente per molti anni esposti agli inquinanti la popolazione ed i bambini e gli operai (con conseguenze considerate inaccettabili dalla scienza), prolungando ulteriormente un calvario sanitario che la magistratura ha cercato in tutti i modi di fermare applicando la legge».

Marescotti e altri sostengono che, finora, «lo stabilimento ha ingoiato enormi risorse senza garantire l’occupazione ma rendendola sempre più precaria».  Secondo tale tesi l’unica prospettiva possibile per il futuro di Taranto  è quella di «partire dall’osservanza scrupolosa della sentenza della magistratura (sequestro e confisca di impianti non compatibili con la salute pubblica) e dall’attivazione di alternative con il consistente fondo europeo della transizione giusta già stanziato (oltre 700 milioni di euro di JTF) nell’interesse dei lavoratori che vanno riconvertiti e riqualificati (il JTF lo prevede esplicitamente) e resi protagonisti di altre attività economiche e professionali orientate alla transizione ecologica».

Lo scudo penale deciso dal governo, in continuità con i precedenti esecutivi di diverso colore, è in linea con la strategia di Bernabè intesa a mantenere in vita «la fabbrica che solo vivendo può rimediare ai problemi che l’industrializzazione ha provocato». Secondo il presidente di Acciaierie d’Italia, non esistono margini per una riconversione e quindi «il rischio che si corre è quello di lasciare un cratere, per il quale i soldi per sistemarlo non ci saranno mai, servirebbero 7-10 miliardi di euro».

Due prospettive antitetiche di politica industriale per l’Italia del 2023.

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