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Sudafrica, giustizia per Albert Luthuli, protagonista della lotta non-violenta contro l’apartheid

di Liliane Mugombozi

- Fonte: Città Nuova

Liliane Mugombozi Autore Citta Nuova

Una recente sentenza di un tribunale sudafricano ha stabilito che la morte, avvenuta nel 1967, di Albert John Luthuli (Premio Nobel per la Pace 1960) non fu un incidente, ma fu causata da un’aggressione da parte della polizia dell’apartheid. Chi era Luthuli, e quale fu il suo impegno nella lotta non-violenta contro l’apartheid in Sudafrica

Il leader per i diritti civili statunitensi Jesse Jackson depone una corona sulla tomba di Albert Luthuli a Kwadukuza, Sudafrica. Credit: EPA/RAJESH JANTILAL/ANSA.

Con l’avvicinarsi della fine del 2025, mi ritrovo a riflettere su varie questioni come la pace nel mondo, il cambiamento climatico e le figure influenti che hanno lasciato un segno in me. Tra queste c’è Albert Luthuli (1898-1967). Con il dibattito in corso sul razzismo al centro delle tensioni tra Sudafrica e Stati Uniti, che continua ad alimentare le discussioni dei media, mi sono chiesta se l’eredità di Albert Luthuli trasmetta ancora un messaggio rilevante per noi oggi.

Il 31 ottobre 2025, un tribunale sudafricano ha stabilito che la morte, avvenuta nel 1967, del primo africano insignito del Premio Nobel per la Pace (1960), fu causata da un’aggressione da parte della polizia dell’apartheid, rivelando che Albert Luthuli morì a causa di una frattura al cranio e di un’emorragia cerebrale collegate a tale aggressione.

Un’inchiesta condotta 58 anni fa, durante il regime dell’apartheid, aveva concluso che Luthuli era morto dopo essere stato investito da un treno merci mentre camminava lungo i binari della ferrovia. Tuttavia, gli attivisti e la sua famiglia avevano costantemente messo in discussione queste conclusioni, portando il governo sudafricano a riaprire, recentemente, le indagini. Questa sentenza ha ribaltato le affermazioni di 58 anni fa secondo cui la sua morte era stata accidentale. Di fronte a questa notizia, mi sono sentita in dovere di saperne di più su questa figura così importante che ha vissuto fin dall’inizio le intense lotte contro l’apartheid in Sudafrica.

Chi era Albert Luthuli?
Judith Coullie, ricercatrice senior in studi inglesi presso l’Università di KwaZulu-Natal in Sudafrica, ha recentemente espresso le sue riflessioni sull’autobiografia di Luthuli, Let My People Go. Gran parte della ricerca si è concentrata sulle autobiografie pubblicate durante l’apartheid, compresa l’analisi del suo libro autobiografico.

Albert John Mvumbi Luthuli era nato intorno al 1898. Era un educatore, capo zulu e leader religioso cristiano. Negli ultimi decenni della sua vita, per il suo impegno, Luthuli fu messo a tacere e perseguitato. Una volta raggiunta la democrazia in Sudafrica, nel 1994, gli furono tributati numerosi onori: la sua immagine è ancora sulla filigrana dei passaporti sudafricani. Luthuli divenne capo dell’ dell’African National Congress (Anc) nel 1952, quattro anni dopo la formalizzazione dell’apartheid. Al momento della sua morte nel 1967 era il leader dell’Anc, allora proibito, e durante l’apartheid ricevette il Premio Nobel per la Pace, nel 1960, per la sua appassionata difesa della non violenza.

Judith Coullie ritiene che «Luthuli sia ancora largamente oscurato dai colleghi vincitori del Premio Nobel per la Pace, Nelson Mandela e Desmond Tutu. E mentre sono state vendute oltre 14 milioni di copie dell’autobiografia di Mandela, Long Walk to Freedom, il racconto della vita di Luthuli, Let My People Go, è relativamente poco conosciuto».

Coullie sostiene che «è un libro che merita di essere letto da un pubblico più ampio. Sfida le aspettative secondo cui un’autobiografia dovrebbe offrire un resoconto sincero e personale di sé stesso e della propria vita». Afferma invece che «l’autobiografia di Luthuli si concentra principalmente sulla lotta per la giustizia. Descrive un uomo di salda moralità, la cui lotta contro l’oppressione razzista ha ispirato gli attivisti all’interno e all’esterno del Sudafrica, e dovrebbe continuare a farlo».

Per 17 anni, Luthuli si impegnò per migliorare la vita delle persone. Inserì le donne nelle riunioni locali, organizzò i coltivatori africani di zucchero e fece parte del Consiglio dei rappresentanti indigeni. Nel 1938 entrò a far parte dell’esecutivo del Consiglio delle Chiese sudafricane (Sacc). Negli anni successivi rimase sempre attivo nelle organizzazioni cristiane e civiche. Dal 1953 dovette affrontare restrizioni che limitavano la sua mobilità e le sue attività editoriali, e nel 1956 fu arrestato per alto tradimento, ma poi assolto nel 1961, dopo il conferimento del Premio Nobel.

Albert John Mvumbi Luthuli – premio Nobel per la Pace 1960. Foto di dominio pubblico da Wikipedia.

Autobiografia di un altruista
Judith Coullie afferma che l’autobiografia di Luthuli dà maggiore peso all’analisi politico-storica più che raccontare la vita personale dell’autore: «Nel libro, egli nega ripetutamente la propria importanza, ricordando ai lettori che gran parte di ciò che ha vissuto è stato condiviso da altri sudafricani oppressi». Luthuli «menziona solo brevemente la sua famiglia. Lui e Nokukhanya − la moglie − hanno 7 figli, ma non rivela i loro nomi e stende un velo su qualsiasi dettaglio riguardante il loro matrimonio».

La riservatezza di Luthuli è accentuata dalla sua preferenza per i verbi al passivo. «Ad esempio, egli descrive come sia stato sollecitato ad assumere ruoli di leadership, piuttosto che averli cercati lui stesso». Tuttavia, osserva ancora Coullie, «nonostante queste apparenti auto-sminuizioni, emerge il carattere di Luthuli: il suo baricentro non risiede nella sfera domestica, ma nel servizio alla comunità. È guidato dal suo desiderio di servire Dio e il prossimo. Rifiutando l’autoaffermazione e l’esibizionismo, Let My People Go ritrae un sé altruista».

L’umiltà di un uomo che non può essere umiliato
La storia di Luthuli descrive un uomo umile che si rifiuta di cedere, nonostante le crescenti persecuzioni. O, come osserva Charles Hooper nell’introduzione, esprime: «l’umiltà di un uomo che non può essere umiliato». Luthuli esprime gratitudine quando l’indignazione sembrerebbe più ragionevole. Descrive la sua cella di prigione, quando era malato e isolato, come un «santuario» di preghiera. I racconti di episodi di razzismo, di vessazioni da parte della polizia e di aggressioni brutali sono strazianti. «Difficile da leggere è anche l’autocritica di Luthuli. Egli si rimprovera di aver contribuito troppo poco alla lotta politica».

Questa riservatezza non oscura il suo carattere, anzi lo illumina. Emerge come un uomo riflessivo, umile, impegnato nella non violenza e nella giustizia, che cerca persino di comprendere le paure degli afrikaner di essere “sommersi”. Lungimirante, Luthuli aveva previsto l’ascesa del «terrorismo, dell’omicidio legalizzato da parte dell’esercito e delle forze di polizia». Eppure aveva conservato la fiducia che il risultato della lotta sarebbe stato la giustizia per tutti.

L’umiltà, il servizio altruistico, la non violenza e una certa dose di discrezione, il silenzio e la preghiera che permette di discernere nella tranquillità dell’anima sono componenti integranti dell’eredità di Luthuli, attualissime per la nostra società contemporanea, soprattutto per la costruzione della pace.

 

 

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