“Homo sum, humani nihil alienum a me puto” – “Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo”. Nel II secolo avanti Cristo il drammaturgo Terenzio scrisse questa frase nella sua commedia Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”), rappresentata per la prima volta nel 163 a.C. È uno di quegli aforismi che permette di introdurre una pausa, uno spazio di pensiero, tra un evento e la risposta “di pancia”. Una frase che secondo certe interpretazioni un po’ bonariamente invita a farsi gli affari altrui, ma soprattutto che porta a indagare, per quanto possibile, le dinamiche che possono spingere esseri umani a compiere determinate azioni. Ci sono momenti, tuttavia, in cui il pensiero vacilla.
Lo stupro di gruppo dello scorso 30 gennaio a Catania è stato uno di quei momenti: sette ragazzi egiziani tra i 15 e i 19 anni hanno violentato una tredicenne, costringendo nel frattempo il suo ragazzo ad assistere alla scena. Subito evapora la normale comprensione e compassione, e si tenta di creare quel solco di umanità tra “noi” e “loro” adducendo alla – reale – diversità culturale e di provenienza. Ma se fosse questa l’unica spiegazione, come si spiega la stessa, identica violenza, compiuta a Palermo quest’estate da parte di altrettanti (sette) italiani? Hanno invitato a uscire con una scusa, poi ubriacato, stuprato in gruppo (filmandola) e abbandonato in un cantiere una ragazza di 19 anni. Cambia qualcosa?
I dettagli sono crudi, disgustosi, osceni. Le strade in questo caso sono due: lasciar accadere quello spazio di differenziazione tra noi e questi ragazzi, animalizzandoli (“sono delle bestie”); oppure affondare le mani nella nostra melma comune e cercare di comprendere qualcosa in più sulle dinamiche sociali generali.
L’adolescenza è una fase della vita caratterizzata da una significativa influenza del gruppo dei pari su vari aspetti del comportamento individuale, con l’obiettivo e l’ambizione condivisa di entrare nell’età adulta, diventare “grandi”. Una delle modalità per ottenere ciò è lo scontro diretto con l’autorità adulta, per porsi su un piano non più di subalternità quanto di simmetria e uguaglianza. Il gruppo dei pari diventa così una sorta di laboratorio sociale in cui vengono sfidate le convenzioni, le regole e le autorità costituite, un ambiente in cui sperimentare appartenenza e rinegoziare una nuova identità sociale che non sia più quella della famiglia e dell’infanzia. Un’interazione positiva con i pari facilita lo sviluppo dell’autonomia, dell’autostima e dell’adattamento sociale, contribuendo alla formazione dell’identità e al processo di socializzazione.
Se però il gruppo dei pari non è una possibilità in più, ma l’unica comunità disponibile allora le dinamiche di gruppo si rafforzano fino a diventare di fatto indispensabili per l’esistenza individuale. Quando a tutto questo si unisce una discriminazione nel contesto di appartenenza, il gruppo “fa muro” rispetto all’esterno, offrendo un’opportunità di solidarietà, comprensione e accettazione ai membri che ne fanno parte. Un gruppo marginalizzato rende così i suoi membri ancora più coesi tra loro e più diffidenti verso il mondo, capaci di idee – e poi azioni – più estreme, radicali e antisociali. Questo avviene in qualsiasi contesto: scolastico, lavorativo, politico e sociale.
Uno degli elementi dati per assodati in psicologia sociale è che il gruppo pensa, pianifica e agisce diversamente da come penserebbero, pianificherebbero e agirebbero singolarmente i suoi membri. Ognuno dei ragazzi coinvolti in questi tragici episodi di violenza collettiva potrebbe non aver mai commesso da solo, o forse neanche immaginato, azioni simili. L’appartenenza anonima a un gruppo può scatenare profondi cambiamenti psicologici – che vanno sotto il nome di deindividuazione – capaci di ridurre la sensibilità alle norme che inibiscono la violenza.
Il fatto di agire all’interno di una collettività porta ad una sorta di “fantasia condivisa” che trasforma l’intento in atto, poiché ognuno ha la possibilità di allontanarsi da quell’azione senza assumersene la piena responsabilità. Inoltre, come sottolineato dagli psicologi sociali Zamperini e Testoni, l’immersione anonima in un gruppo conduce alla co-creazione e all’adesione a nuove norme. La condotta estrema di un gruppo non è tanto l’azione di un individuo privo di inibizioni, quanto il risultato della nascita di norme condivise in specifiche situazioni.
La violenza può così divenire un nuovo atto normativo del gruppo, con varie possibili motivazioni: un deficit di immedesimazione empatica, che porta ad un mancato riconoscimento dell’umanità delle vittime; una desensibilizzazione di fronte alla violenza e al dolore, forse appresa per imitazione e rinforzo, forse già molte volte osservata o subita; una reazione alla frustrazione di bisogni o aspettative, agita spostando l’aggressione verso bersagli accessibili, deboli e colpevolizzabili (“te lo meriti”; “sappiamo che ti piace”; “sei più fortunata/o di me, non lamentarti”).
L’aforisma di Terenzio rimane quello che è, un aforisma. Come utilizzarlo e integrarlo nella propria vita ricade nella libertà di ognuno, così come le note sulla psicologia dei gruppi qua descritti. Sono solo un esercizio di complessità, per ampliare e far vacillare un po’ meno quello spazio di pensiero messo in crisi dalla violenza più (dis)umana.
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