Sono forse io il custode di mio fratello?

Davanti all'ondata migratoria dal Nordafrica, è quello che in tanti sembrano chiedersi. Tentiamo di rispondere a questa domanda con Tiziano Vecchiato, direttore scientifico della Fondazione Zancan
Lampedusa

I riflettori possono avere degli sbalzi di tensione e la luce si affievolisce. Credo che invece occorra tenere acceso un buon generatore di corrente, oltreché di speranza, per non abituarci alle cose tenendole in chiaroscuro. Le migliaia di persone che lasciano scenari devastati e devastanti, ora delle fascia nord africana, immaginano e sperano un attracco diverso. Per aiutarci a capire ancora meglio ciò che succede abbiamo sentito il dott. Tiziano Vecchiato, noto studioso ed esperto di politiche sociali, Direttore Scientifico della Fondazione Zancan, una delle eccellenze italiane nel campo della consulenza e della ricerca del welfare.

 

 

In questi giorni viviamo momenti quanto mai roventi e confusi. Sulla vicenda degli arrivi via mare si fa un gran parlare. Qualcuno si chiede: ma esiste ancora la cosiddetta solidarietà italiana?

 

La solidarietà italiana è frenata, ostacolata da tante paure, resistenze e pregiudizi. In certi casi rischiano di diventare “eutanasia da abbandono”. È un rischio che stiamo correndo tutti i giorni. Non pochi si chiedono, in Italia e in Europa: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Le tragedie a cui assistiamo tutti i giorni producono assuefazione. La soglia di solidarietà si riduce sempre di più, senza che questo generi senso di colpa e paura della connivenza con quanti abbandono al loro destino le persone in difficoltà.

 

 

Le parole hanno un significato, e quindi aiutano a capire. Su questo argomento però pare di no: profughi, clandestini, extracomunitari, rifugiati, richiedenti asilo, sembrano spesso essere usati come sinonimi, confondendo le idee…

 

Le parole, soprattutto in questo momento, sono utilizzate come scudi difensivi per evitare di guardare al problema nelle sue dimensioni, nella sua gravità e drammaticità. È una strategia per evitare di affrontarlo, di sentirlo proprio. Ogni parola sopra esemplificata ha un contenuto giuridico, da non sottovalutare. Non possiamo dimenticare che le norme sono nate anche per aiutare gli uomini a non diventare lupi di sé stessi. È invece quello che sta avvenendo. La sottovalutazione di questo rischio porta facilmente a rasserenare molte coscienze inquinate da troppa disinformazione. Dobbiamo quindi riscoprire la radice del significato di queste parole: riguardano persone che perdono la casa, gli affetti, la terra natale, la famiglia… a causa di violenze, persecuzioni, sfruttamento, violazione dei diritti umani fondamentali.

 

 

Secondo lei si può continuare a guardare i continenti – soprattutto l’Africa – in chiave occidentale, senza poter innescare un nuovo processo che veda i popoli emergere con le proprie potenzialità, senza che continuino ad essere oggetto di “esportazioni” delle nostre certezze?

 

Duemila anni fa il Mediterraneo era chiamato “mare nostrum”. In questo modo non si voleva affermare un senso di proprietà, ma qualcosa di più profondo: la comune coesistenza in un’area geografica dove proprio il mare era baricentro di popoli e culture. Intorno a questo baricentro sono nate civiltà, relazioni, comunicazioni, fedi religiose. È stato un terreno di cultura e di fertilità, che ha avuto pochi eguali nella storia umana. Non possiamo pensare che oggi non possa essere ancora così. Significherebbe negarci la speranza di futuro non solo per noi ma soprattutto per le nuove generazioni, respingere il loro sviluppo sociale ed economico, grazie al potere rigenerativo che possono avere gli scambi e le collaborazioni tra popoli e culture.

 

 

Non facendo solo uno sforzo di mutazione lessicale, ma anche culturale, oggi non è forse l’ora della fraternità piuttosto che solo della solidarietà?

 

Se la solidarietà viene intesa come assistenza e beneficienza emergenziale, allora non basta, non è adeguata ai problemi da affrontare. Bisogna avere il coraggio di guardare oltre. L’idea di fraternità umana può aiutarci ad aprire gli occhi verso orizzonti più ampi, chiedendo ai decisori di allargare il loro campo visivo oltre gli interessi del giorno dopo. Gli interventi solo compassionevoli, soprattutto oggi, sono un ostacolo alle soluzioni necessarie. Il senso di fraternità umana ci sta aiutando ad affrontare i problemi ambientali confidando in soluzioni basate sul concorso di tutti. È strano che questo stia avvenendo guardando agli “spazi della vita” e non abbastanza a “quanti li abitano”. Le emergenze ambientali prefigurano e simbolizzano quanto di peggio può avvenire con una umanità violenta, non solo con la terra, l’aria e l’acqua, ma con sé stessa. Per questo la riscoperta della fraternità umana può rappresentare un antidoto all’indifferenza e un potenziale a disposizione per sperare in una civiltà rinnovata.

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