A Sheik Jarrah i tentativi di sfratto da parte dei coloni sionisti, supportati dalle forze di polizia israeliane, sono all’ordine del giorno. Generazioni di palestinesi vivono nell’area da decenni e oggi sono prese di mira dalle ambizioni di appropriazione territoriale delle associazioni sioniste, tra le principali c’è Nahalat Shimon. Il quartiere si trova a un quarto d’ora a piedi dalla porta di Damasco, fuori dalle mura della città vecchia.
Una delle molte famiglie palestinesi che vivono a Sheik Jarrah ci racconta dell’attacco subito domenica 29 maggio. In occasione della marcia di coloni israeliani a Gerusalemme est per celebrare l’occupazione del territorio nel 1967, i raid delle forze sioniste hanno sconvolto il centro della città vecchia, ma anche questo piccolo quartiere. Una quarantina di coloni arrivano alla carica, scagliando pietre grosse come mattoni contro l’abitazione in cui vivono Noor, donna sulla sessantina, e i figli adulti, insieme a nipoti adolescenti e bambini.

Le pietre che sono state scagliate. Foto di Francesca Campanini
La famiglia palestinese si barrica in casa sotto al rumore dei sassi che colpiscono le pareti di cemento. Sono decine e decine le pietre che inondano il piccolo cortile interno e molte sfondano le finestre e arrivano in casa. La donna racconta di essere colpita a una mano, che giorni dopo le fa ancora male. In preda al panico e consapevole di non avere via d’uscita la famiglia chiama la polizia più e più volte, ma nessuno alza la cornetta dall’altra parte. Le forze armate israeliane non rispondono alle chiamate palestinesi, però arrivano nei luoghi di tensione a supportare i loro connazionali. Si posizionano attorno ai coloni per creare un corridoio di sicurezza in cui essi possono dare sfogo alle loro ambizioni di occupazione. Se la prendono anche con le auto posteggiate nel parcheggio di fronte all’abitazione. Le macchine vengono distrutte, tra queste anche quella appositamente attrezzata per la disabilità di un signore con una gamba che funziona male, che ora non ha più un effettivo mezzo di spostamento. L’uomo racconta ciò seduto su un miniscooter elettrico, con cui è evidente non si possano percorrere grandi distanze. Mentre piovevano pietre la famiglia palestinese riprendeva l’assedio con gli smartphone. Faceva dei video per avere le prove di una realtà violenta, occultata e negata dalle istituzioni israeliane complici nella sua esecuzione. Per lo stesso motivo, per averne le prove, gli abitanti della casa hanno conservato le pietre raccolte dal loro cortile. Raccogliere prove a quale scopo? Verrebbe da chiedere, visto che il sistema di “giustizia” israeliano emana sentenze ad hoc per proteggere gli interessi di chi mira a occupare le aree palestinesi della città, fornisce loro gli strumenti giuridici per avanzare rivendicazioni e garantisce loro l’effettiva immunità. Noor risponde che nella disperazione del momento hanno provato comunque anche quello.
A vivere in questa piccola casa del quartiere è una famiglia allargata che si estende a tutto il quartiere in realtà. Infatti quando chiediamo alla donna e alle amiche che nel frattempo si sono unite per un tè se ci sia solidarietà nella comunità del vicinato lei risponde unendo le mani e intrecciando le dita, accompagnando il gesto con un “Certo, così” per esplicitarne il significato, per indicare un rapporto che va oltre il prestarsi lo zucchero quando è finito. Un legame rafforzato dagli sforzi di una resistenza che è la loro unica via per non soccombere. La violenza si scaglia contro questa piccola abitazione, dipinta di bianco con graffiti che ritraggono la Moschea al Aqsa, la kefiah, cioè il tradizionale copricapo simbolo della resistenza palestinese, le mura della città vecchia macchiate di sangue e scritte che recitano “I resistenti sono qui” e “Noi restiamo”. Il progetto alla base dell’ordine di sfratto per questa famiglia è la demolizione della loro casa per costruirvi una palazzina di sei piani in cui collocare cittadini israeliani. A chiamare gli estremisti perché eseguano le loro operazioni è un israeliano che vive nel quartiere. Le persone del posto lo chiamano “L’ebreo con la maglia gialla” e lo definiscono la ragione di gran parte dei problemi nel quartiere. È “l’infiltrato”.

Foto di Francesca Campanini
La polizia di prassi non solo copre le spalle ai coloni, ma procede anche agli arresti degli uomini palestinesi che provano a resistere raccogliendo le pietre che invadono le loro case e ricacciandole a chi le lancia. Lo status quo qui è che agli israeliani è permesso distruggere finestre, pareti, automobili e vite, mentre ai palestinesi non è concesso difendersi rilanciando una pietra in un confronto quattro a quaranta. Vengono portati in prigione domenica anche i figli della signora Noor, che dovrà pagare per farli uscire, se va bene, dopo qualche giorno. Non c’è alternativa al provare a difendersi, spiega un’altra donna, sulla cinquantina e con il capo coperto da un hijab rosa. Sta aspettando il figlio, il cui ritorno a casa è previsto quel pomeriggio dopo quattro mesi passati in carcere.
C’è chi prova a resistere e chi non ne ha modo, perché la sua fine è quella di morire di botte o di sassate. La donna racconta che la procedura standard dei coloni è poi quella di mettere in mano o accanto al corpo un coltello che farebbe della vittima un violento che doveva essere fermato. Le morti avvengono così qui, spiegano gli abitanti di Sheik Jarrah.
Chiediamo alle persone qui delle loro aspettative per il futuro: non sembra esserci fine alla violenza e all’occupazione, è la conclusione di un uomo del posto che risponde mentre sorseggia un tè dolce e contemporaneamente mastica un boccone troppo, troppo amaro.
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