Sfide in ospedale

Nel quotidiano di due donne medico. Flash di vita accanto agli ammalati.
Illustrazione

Non importa se ho aspettato

 

Un giorno un collega del pronto soccorso mi chiede una consulenza riguardante una signora di 101 anni in coma con segni di infarto. Ricoverarla da noi o in medicina dal punto di vista terapeutico non cambierebbe nulla. Che fare? Non me la sento di lasciare Caterina (così si chiama la paziente) in quel porto di mare che è il pronto soccorso, dove non c’è uno spazio riservato per questo genere di situazioni. Per fortuna ho diversi posti letto liberi nel mio reparto e così la ricovero da me, aspettandomi battute e commenti. L’andazzo, infatti, è che quando arrivano in reparto malati in età avanzata, c’è un po’ di malcontento per via dell’assistenza molto impegnativa e scarsa di successi terapeutici.

Al momento del ricovero è presente il più giovane tra i miei colleghi, cui non è sfuggito che i turni miei sono uguali ai suoi (stesse festività, stesse notti…), mentre altrove i “medici esperti”, come sarei io, si riservano quelli migliori e meno faticosi.

Visito la signora e detto la terapia, con l’idea di non fare accanimento terapeutico, ma neppure eutanasia. Dopo un’ora arriva un’infermiera a dirmi: «Dottoressa, dopo aver messo quelle flebo, la signora si è calmata e non si lamenta. Aveva proprio bisogno di bere… chissà da quanto tempo non si alimentava!».

Al momento delle consegne, quando finisco di esporre quello che dal punto di vista medico viene considerato un “caso perso”, mi sento chiedere dal collega che mi dà il cambio: «Perché l’hai ricoverata da noi?». Una voce dietro di me risponde: «Per darle una morte dignitosa». È il collega giovane, che ha capito il mio pensiero e lo esplicita. Sono felice per aver potuto testimoniare l’amore di Dio per tutti gli uomini.

 

Non è mia abitudine, quando lavoro, guardare l’orologio. I malati hanno diritto ad esporre i loro problemi con calma, senza avere impressione di essere sbrigati il più in fretta possibile perché fuori c’è la fila.

Un mattino, in ambulatorio, alla normale routine si aggiungono urgenze e le consulenze per il Dea (Dipartimento di emergenza ed accettazione). L’infermiera, che ogni tanto viene a controllare quante visite ho ancora da fare, ad un certo punto mi fa notare che sono in ritardo di più di un’ora con l’ultima persona da visitare: una signora che ha un appuntamento con l’oculista dopo mezz’ora.

Non posso lavorare come in una catena di montaggio, ho bisogno dei miei tempi per gli ammalati, per cui faccio in modo che le venga spostato l’appuntamento e continuo in pace. Alla fine entra sorridente la signora che mi aspettavo irritata e in vena di polemica: «Sa, ho notato che invece di uscire per chiacchierare o prendersi un caffè, come sarebbe anche stato un suo diritto, lei ha dedicato tempo a tutti come se fossero pazienti a pagamento, mentre siamo qui con la mutua. È la prima volta che assisto ad un fatto simile e non mi importa di aver aspettato tanto».

Maria Vincenza Calì – Piemonte

 

Da medico a malato

 

Sono incaricata del laboratorio di donazione del sangue nell’ospedale di una piccola città dell’Ungheria vicino a Szeged. Tutto sembrava procedere per il meglio quando alcuni esami hanno evidenziato la presenza di un tumore maligno. Mi aspettavano un intervento chirurgico e cure pesanti.

Sostenuta, oltre che dai miei familiari, anche da tanti amici dei Focolari ho avuto la forza di cogliere, malgrado tutto, l’amore di Dio per me, finché sono riuscita ad accettare la malattia.

Questa nuova esperienza, una volta conclusa, ha cambiato il mio modo di considerare il lavoro, diventato ora veramente una missione. In particolare ho capito che in questo mondo secolarizzato dobbiamo rivolgerci con grande amore verso chi soffre e assicurare le condizioni sanitarie migliori per gli ammalati fino agli ultimi stadi della vita.

Questi pensieri hanno trovato una particolare risonanza nel vescovo della città. Così lo scorso aprile, sotto gli auspici della Chiesa locale e del Comune, ha preso il via nell’istituto un programma dal titolo “Dignità umana”. Nella difficile situazione sanitaria del nostro Paese, anche semplici iniziative fatte in precedenza (una messa in occasione della festività dei santi Cosma e Damiano, protettori dei medici, e la diffusione della Parola di vita) erano state apprezzate. L’obiettivo, stavolta, era di stabilire nell’ospedale condizioni umane affinché il malato incurabile possa concludere la sua vita in maniera degna. E ciò offrendo aiuto professionale e spirituale.

Grazie a questo programma, esiste ora una cappella. In ogni reparto è presente uno spazio lettura che offre almeno una Bibbia e pubblicazioni religiose, tra cui Ui varos, Città Nuova in ungherese. Al reparto di patologia è stata riservata una stanza dove i parenti possono dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Un sacerdote è a completa disposizione, vengono assicurate le messe cattoliche e le liturgie protestanti. Sono stati creati inoltre un team di medici e uno di igiene mentale, un hospice, e in ogni reparto ci sono medici ed infermieri che fanno volontariato. È stato anche molto utile prendere contatto con altri ospedali, tra cui uno a Budapest.

Sono tante ormai le persone che si sono ritrovate unite intorno a questi valori; e “dietro le quinte” c’è la comunità dei Focolari a cui sono molto grata.

Zsófi Varjasi – Makó (Ungheria)

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