Negli ultimi anni ho dovuto raccogliere le lacrime di diverse mamme. Amiche che mi confidavano di essere state costrette a somministrare psicofarmaci ai loro figli. Ad accettare i consigli degli psichiatri che osservavano nelle loro creature un dolore profondo, pericoloso, a rischio di cronicizzarsi. Le donne di cui parlo sono mamme avvedute, gente di valore che ha costruito famiglie solide con i loro mariti e partner. Luoghi includenti e aperti al dialogo fra le generazioni. Voglio dire che il disagio più profondo ha iniziato a insinuarsi in modo non occasionale negli strati più sani della nostra società. Certamente ci saranno diverse cause che portano a così dolorose conseguenze, ma io ne analizzerò solo una di particolare rilievo e racconterò come ho cercato di reagire…
Mi ero accorto che le cose stavano precipitando nel 2018, quando alcuni amici dei miei figli, allora all’inizio dell’adolescenza, non uscivano più di casa perché avevano sviluppato una forte dipendenza dai videogiochi. Io mi ero sempre rifiutato di assecondare il desiderio dei miei ragazzi di avere in salotto una playstation e ci sono state in casa battaglie non facili da gestire. Ora, avvedutisi delle conseguenze sui loro amici, i nostri figli ringraziavano e chiedevano aiuto per i loro coetanei. Potevamo fare qualcosa per salvarli?
Già dagli inizi degli anni 2000 studiavo l’influenza delle immagini digitali sulle persone, e il loro uso nelle tecnologie progettate per intrattenere oltremisura la gente. Voglio precisare che amo la tecnologia. La ritengo una espressione dell’intelligenza umana. Sono uno di quelli che crede che «le tecnologie non sono né buone né cattive, dipende da come le usi». Studiando a fondo i social che entravano in contatto con i miei figli mi sono accorto, però, che non si trattava di “tecnologie neutre”. Per pura avidità, o almeno per colpevole negligenza, un gruppo ristretto d’oligarchi, neuroscienziati e smanettoni, senza farsi scrupolo degli effetti collaterali gravi che potevano generare, faceva di tutto per aumentare le conseguenze di condizionamento e dipendenza che le loro piattaforme erano in grado di produrre. Hanno anche iniziato a finanziare le campagne elettorali di senatori e deputati americani per ostacolare ogni tipo di regolamentazione e avere le mani libere, e ci sono riusciti!

Il romanzo Liberamente
Veronica è pubblicato da Città Nuova
Sollecitato dai miei figli, ho scritto un romanzo, Liberamente Veronica, i miei 30 giorni senza i social, e dal 2019 ho iniziato a incontrare le scolaresche. Ad oggi sono circa 30 mila i giovani a cui ho proposto un’esperienza di disconnessione. Una sfida che ha l’obiettivo di aiutare i ragazzi a riappropriarsi delle loro libertà fondamentali, prima di tornare nella baraonda in cui siamo immersi e sopravviverci senza subirla supinamente. Mentre scrivo, una quindicina di loro, in una scuola media dell’Emilia Romagna, sono alla seconda settimana di questa sfida. In questi anni le ragazze che hanno fatto l’esperimento si sono liberate di uno stress insostenibile che le spingeva a sviluppare un nocivo senso d’inadeguatezza. Io, queste temerarie, le chiamo le sentinelle del domani. Sono ragazze capaci di autodeterminarsi e fiorire secondo le loro inclinazioni. Hanno imparato a sfuggire al controllo pervasivo che può produrre gravi disagi sulle persone in formazione. I maschi che hanno fatto l’esperimento sono pochissimi. Non riescono a rinunciare ai social neanche per pochi giorni, ne hanno bisogno per accorciare le distanze con le ragazze. Hanno paura a fare il primo approccio fuori dall’ambiente virtuale, che li protegge da un possibile fallimento.
Dopo qualche anno in cui parlavo solo agli studenti, mi sono accorto che spesso i genitori, invece di incoraggiarli e sostenerli nella loro avventura di disconnessione, li ostacolavano. Così ho cambiato strategia. Quando ora m’invitano in una scuola, prima incontro genitori e insegnanti facendo con loro un patto educativo, e dopo, insieme, aiutiamo gli studenti. È così che ho visto madri che piangevano ritrovare il sorriso grazie a insegnanti che hanno colto il potenziale formativo dell’iniziativa.
Nel 2019 questa attività era più difficile, gli adulti non sentivano l’urgenza d’intervenire. Ora le cose sono cambiate. Dopo un lustro di disattenzioni in cui siamo arrivati a regalare gli smartphone ai bambini di 9 anni per celebrare le prime Comunioni, quasi tutti i genitori si attivano per proteggere i loro figli. Non è tutto perduto, qualcosa si può fare. Mentre i legislatori italiani ed europei hanno faticosamente iniziato a regolamentare questo settore sfidando le Big Tech, noi possiamo prendere l’iniziativa.
Uniamoci con i genitori più sensibili e facciamoci sentire nelle scuole che frequentano i nostri figli, per sviluppare azioni che possano far crescere la consapevolezza. I social tengono i ragazzi in una bolla a fare sempre le stesse cose. Buchiamola con strategie intelligenti e ridiamo loro più tempo per vivere nella realtà. Anche noi abbiamo bisogno di cambiare. Aiutando i nostri figli, magari ci accorgeremo di stare meglio anche noi, non siamo immuni dalla dipendenza social.
Io e mia moglie abbiamo avuto tre figli, due maschi e una femmina. Ora hanno 23, 21 e 17 anni. Dal 2010 ho avuto la fortuna, salvo rari casi, di poter essere a casa per il pranzo. Il tavolo della cucina è diventato un posto speciale per spaziare con i ragazzi da un argomento all’altro. Qualche tempo fa discutevamo del fatto che l’uso massivo dell’Intelligenza artificiale sta causando un esponenziale innalzamento dei consumi d’energia elettrica. Mia figlia Lucia era molto coinvolta in questo dibattito e ad un certo punto disse: «Magari ci fosse un blackout che dura!». In vista di questo articolo, le ho chiesto di mettere per iscritto questa sua presa di posizione e riporto di seguito, integralmente, le sue osservazioni.

Fernando Muraca con gli studenti dell’Isituto di Istruzione Superiore di Tropea.
Mi sembra il modo migliore per concludere questo articolo dando voce alla sua generazione: «Se ci fosse un blackout e restassimo senza elettricità, dopo un iniziale timore, ne sarei felice. Sì, felice, perché tutti i dispositivi elettronici smetterebbero di funzionare. Impossibilitati ad accendere il telefono, non si potrebbero aprire i social, nessuno potrebbe. Metteremmo fine a quel malato desiderio di rincorrere l’approvazione di persone che in fondo non contano davvero. Ci ritroveremmo all’improvviso qui, nel presente, senza distrazioni. Forse ci guarderemmo davvero negli occhi. Parleremmo di più e senza fretta, senza sentire il bisogno di controllare lo schermo ogni 10 secondi. Chissà, potremmo persino provare noia e, combattendola creativamente, trovare spazio per immaginare, per scoprire e anche solo per “stare”. All’inizio ci sarebbe confusione, certo.
Il silenzio dei dispositivi diventerebbe quasi assordante. Ma poi, lentamente, cominceremmo a capire che il brusio sentito fino a quel momento ci aveva distratto dalla cosa più importante che abbiamo, la nostra vita, e ci aveva risucchiato, portandoci via ogni giorno qualcosa in più. La cosa peggiore è che ne siamo coscienti, tutti o quasi, ma in pochissimi riescono a liberarsi dalla costante connessione a cui siamo sottoposti. Proprio come una dipendenza, staccarsene sembra impossibile. Se dunque è necessario un blackout affinché avvenga un risveglio di massa, allora che si spenga tutto, un modo per vivere lo troveremo, in fondo prima dei cellulari si è sempre fatto. Senza corrente, sì, ma con le nostre vite tra le mani».