Sanremo. Seconda puntata

Niente di nuovo dalla seconda serata: copione consueto nel segno del più classico luogocomunismo alla sanremese. Ma dopo il boom di ieri, gli ascolti continuano ad andar bene: oltre il 41 per cento di share per più di dieci milioni di spettatori.
Casino di Sanremo

E’ un Sanremo che regge, anche se sono parecchi quelli che non lo reggono più. Così Carlo Conti, amministratore massimo di questo 65esimo festival, gongola e ne ha ben donde. Perché dopo gli ascolti della prima serata anche la seconda è andata ben al di là delle aspettative e comunque meglio dei risultati portati a casa dall’accoppiata Fazio-Littizzetto. A prescindere dalla pochezza dell’offerta, un festival smaccatamente neo-baudesco per quel che concerne lo stile e gli ingredienti, ma ben lontano dalla grandeur del super Pippo degli anni belli. E non è detto che tale autoridimensionamento sia un male.

                L’impressione dunque, almeno a giudicare dai dati d’ascolto, è che ai tradizionalisti e agli aficionados questo calderone piaccia o piaciucchi: non tanto perché il Festival abbia saputo, come faceva un tempo, farsi collettore di audience trasversali, ma al contrario, proprio perché ha furbescamente puntato tutto sugli habitué, ovvero su chi non ha alternative a passare serate siffatte: vuoi per ragioni di reddito, vuoi per ragioni d’età. In questo senso è il trionfo del nazionalpopolare coatto, da intendersi come sinonimo di “obbligato”, più che di “kitsch”, tutto sommato. Da qui quest’ansia perenne di zibaldoneggiare mischiando l’ebola con le foibe, la famiglia extralarge e gag di basso cabotaggio, campioni sportivi e marchette cinematografiche, gossip nostalgici (vedi la riesumazione di Albano & Romina) e problematiche delicate (come quelle iper-compresse nel brano fin troppo intellettuale della Di Michele & l’ex Platinette, o sottintese nella scelta di un super-ospite come Conchita Wurst). Il solito caravanserraglio, intriso di provincialismo buonisti, retoriche da bar sport, e soprattutto di tante nostalgie canagliesche, tipiche di chi proprio non sa o non vuole guardare avanti; l’ennesima occasione mancata per mostrare al mondo un’Italia meno attorcigliata sui suoi stereotipi anziché in grado di dar risalto ai suoi veri tesori. Me che ce lo diciamo a fare?

                Com’era più che prevedibile, la seconda puntata ha srotolato grosso modo il medesimo canovaccio della serata inaugurale, con la prima sfornata di giovani mandati al macello a sostituire l’estenuante “dietro le quinte” che aveva fatto da prologo all’esordio: senza scossoni, senza stress né brividi emotivi, senza altre spezie che una nuova razione di canzonette, per lo più sciape nel gusto, ma generalmente dignitose nella forma: poco più di un intervallo tra uno spot pubblicitario e l’altro (per quanto a tratti fosse difficile cogliere il confine tra questo e quelli). Ovvio dunque che una simile ricetta non potesse ingolosire ulteriori acquirenti, ma piuttosto perdere per strada buona parte dei curiosi della prima serata: un calo fisiologico del resto, ma anche un viatico più che incoraggiante per le prossime serate: più per chi ha il compito di confezionarle che per chi se le dovrà sorbire…

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