«Salvare una vita umana»

La testimonianza di uno dei sopravvissuti al naufragio della Costa Concordia: il cappellano di bordo don Raffale Malena. Da 20 anni in servizio sulle navi
Uno dei sopravvissuti alla tragedia

«Una pena nel cuore infinita». «Ci ho messo l’anima per salvare qualcuno». «Pensavamo di morire tutti». Non dorme dal giorno del naufragio, don Raffaele Malena, cappellano di bordo della Costa Concordia, affondata nell’isola del Giglio la notte di venerdì 13 gennaio. La notte diventa per lui un film muto in cui rivede le scene drammatiche di migliaia di persone in preda al panico e al terrore. Ricorre sempre l’immagine di una bambina che è riuscito a salvare.

 

In quei momenti la paura prende il sopravvento e impedisce di ragionare, l’istinto di sopravvivenza è talmente forte che prevalgono gli impulsi più bassi. «Il panico, quando la nave ha cominciato ad inclinarsi era talmente indescrivibile che la gente sembrava come impazzita. C’erano due persone in carrozzella che nessuno soccorreva. Mi sono messo a spingere per cercarli di avvicinare alle scialuppe e c’è chi mi ha risposto: “Questi possono pure morire”». Un bambina di cinque anni, caduta a terra, nessuno la aiutava, don Raffaele ha urlato a squarciagola, come un ossesso, pur di fermare le persone. L’ha presa in braccio, baciata. Nel frattempo arriva la mamma e li fa salire sulla scialuppa. «Anche lì – aggiunge – nessuno ragionava e c’è chi ha detto: “La mamma può aspettare”. Entrambi si sono salvati. Salire sulle scialuppe è stata una lotta e c’è stata anche gente che si è presa a pugni pur di guadagnarsi un posto. «Non sono persone da giudicare, perché il frangente è eccezionale, ma ho assistito anche a queste scene».

 

Poi la pena infinita. All’1 e 30 viene chiamato al porto per benedire le salme. Vede una signora francese morta, poi, il colpo al cuore. Accanto a lei riconosce un uomo dell’equipaggio deceduto che conosceva bene perché da 20 anni svolge la sua opera sulle navi ed ha costruito centinaia di rapporti personali di amicizia e di fiducia entrando nella vita di tanti persone che lavorano a bordo. E accanto un altro cadavere di un altro membro dell’equipaggio. «Era dato per morto, poi, di colpo si accorgono che ancora respirava – racconta don Raffaele in preda ancora ad una viva emozione, – gli hanno fatto il messaggio cardiaco e si è ripreso come un morto resuscitato». Lui stesso, che ha compiuto 73 anni, ad un certo punto ha creduto di morire. Sotto la nave inclinata c’era uno zatterino. Don Raffaele scende da una scala che, nel buio, pensava a pioli, invece era a corda. «Son rimasto sospeso nel vuoto, ad oscillare, a 25 metri di altezza, non ce la facevo più, ero stanchissimo e stavo svenendo. Un ufficiale di bordo mi ha aiutato».

 

Il suo giudizio sul comandante Schettino non è così negativo come appare sui media. Ha compiuto degli errori imperdonabili: l’impatto sullo scoglio e l’abbandono della nave ma ha cercato di salvare l’equipaggio e la nave con quella manovra azzardata dopo l’urto che è stato violentissino tanto che don Raffaele è caduto a terra. «Secondo me – dice il cappellano – con quella manovra, anche se gli esperti dicono il contrario, ha salvato la nave». Non dovevano, comunque, passare così vicino alla costa. È una manovra già fatta anche in passato, e don Raffaele più volte si era lamentato, ma evidentemente è una politica di promozione aziendale: passare vicino alle coste per far vedere la nave, il cosiddetto “inchino”.

 

Fatto sta che solo pochi minuti dopo l’impatto incontra il direttore macchine che era sceso in sala macchine che gli dice che stanno morendo tutti perché i ponti A, B e C sono pieni d’acqua e i cavi della luce elettrica sono segati come da un accetta. I motori, infatti, sono fermi e la luce sparisce. Secondo i suoi ricordi dopo circa 50 minuti dall’impatto, avvenuto alle 21 e 42 cominciano a scendere le scialuppe, mentre l’ordine dell’abbandono della nave è stato dato dal capitano Bosio che era sull’imbarcazione come semplice passeggero ma che, evidentemente, ha avuto la lucidità di prendere quella decisione. L’annuncio dell’abbandono, come da prassi, è stato fatto dal direttore di crociera in varie lingue e in modo chiaro ascoltato da tutti. Le stesse polemiche sui nostromi, camerieri che aiutavano per far salire sulle scialuppe è, per don Raffaele, una prassi normale, perché tutti sono addestrati per prestare soccorso in caso di emergenza.

 

Ma il dolore più grande è la perdita dei membri dell’equipaggio «li sto piangendo e, ormai, non ci spero più che ritrovino i dispersi. Io vivo con loro, li conoscono uno per uno, provengono da situazioni difficili e vengono sulla nave solo per lavorare. Mi vengono tutti in mente: la barista, la cameriera, Thomas, tutti ragazzi giovani che non ci sono più. Con alcuni di loro avevamo organizzato una festa di Natale. Una signora aveva perso il marito, per fortuna lo hanno ritrovato il giorno dopo. Un ragazzo che lavora al casinò si è buttato a mare. Stava morendo, ma sono riusciti subito a salvarlo. Sono corso subito dai loro colleghi per avvisarli della buona notizia».

Ad un certo punto don Raffaele corre nella Cappella  della Costa Concordia e chiede a Gesù il miracolo affinché ne morissero il meno possibile. Gli sembra che Gesù lo abbia ascoltato perché così, nonostante la tragedia, è stato.

 

L’accoglienza dei gigliesi è stata straordinaria. «A don Lorenzo Pasquotti che ha subito aperto la sua chiesa bisognerebbe fare un monumento. L’Hotel del porto ha ospitato tutti gratis, il barista ha aperto il bar e, quando ha finito tutto, è andato a casa sua a cercare altro caffè. Sono fatti che ti scrivi nel cuore». «La cosa più bella della vita – conclude – è salvare una vita umana». Ora don Raffaele è a Cirò Marina per riposare dai suoi parenti «mi devo riprendere dal trauma, ma mi rimbarcherò». Non abbandona il suo equipaggio.

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