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In profondità > Verso l'Assemblea del Focolari/9

Ritorno al futuro

di Antonio Coccoluto

L’eterna “questione giovani” e il principio di autorità

«Anno internazionale del fanciullo? Ma mi faccia il piacere!». Con questa battuta, mutuata da Totò, il pediatra e neuropsichiatra Egidio Santanchè, nel 1979, incominciò un suo vibrante articolo in occasione dell’Anno internazionale del Bambino indetto dall’ONU per stigmatizzare quella che era già, allora, una moda: a discettare sui bambini erano quasi sempre gli adulti, per lo più esperti di ogni sorta di aspetto dello scibile umano!

A distanza di 45 anni, non vi è un incipit migliore per affrontare, con imbarazzo, la questione riguardante i “giovani”, diventati una categoria sottoposta ad ogni sorta di analisi, interpretazioni, diagnosi e ricette. L’imbarazzo si deve al fatto che quasi tutte tali considerazioni, anche le più illuminanti, sono destinate a scontrarsi con un ostacolo quasi insormontabile. Quel che rende il discorso arduo, scivoloso, ambiguo è il fatto che il termine categoriale non rende giustizia dell’unicità delle singole persone. Parlare di “giovani” è come parlare di “poveri”, “migranti” ecc. e ciò sposta la questione su un piano troppo distante dalla realtà quotidiana perché nessuno, emotivamente, può interagire con una categoria astratta di persone.

Oltretutto un tale approccio non può sfuggire alla questione cruciale di queste indagini: una sorta di giudizio di merito sulla categoria giovanile. Sembra che quasi nessuno sfugga al dilemma, piuttosto sbrigativo, che vede i giovani di oggi in due maniere opposte: il “nuovo che necessariamente avanza” o il “segnale inequivocabile del peggioramento dei tempi”.  Evidentemente due immagini cariche di giudizi etici impropri, se non addirittura tendenziosi, per scopi che ben si possono intuire.

Così, il filosofo e psicologo Umberto Galimberti iniziava, nel 2007, il primo dei suoi libri sulla questione: «Un libro sui giovani: perché i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male». Senza voler sposare, necessariamente, questa tesi così categorica, occorre dire che in quegli anni pochissimi avevano avuto il coraggio di parlare in questi termini.

E quasi nessuno si era spinto fin dove lo psicoterapeuta argentino Miguel Benasayag aveva alzato l’asticella. Autore di svariati testi sulla questione frutto dalla sua lunga pratica terapeutica, tra cui l’efficacissimo L’epoca delle passioni tristi con Gérard Schmit (2004), Benasayag sottolinea che soprattutto due sono gli errori più frequenti e gravi che si compiono, pur con le migliori intenzioni di partenza. Da un lato una sorta di schieramento acritico a favore dei giovani, sempre e comunque, che fa assumere atteggiamenti spesso irresponsabili nei loro confronti e foraggia quella moda del “giovanilismo” così inappropriata e pericolosa perché si trasforma solo in un subdolo modo di blandirli e portarli dalla parte degli interessi più vari in gioco. Dall’altro, l’antico e abusato ritornello circa la nostalgia dei tempi andati che erano, ovviamente, migliori con l’immediato corollario di lamentele sul degrado morale e cognitivo dei giovani di oggi, tutti disimpegnati, svogliati, inconcludenti, cinici e superficiali.

In realtà, la questione cruciale che entrambe queste posizioni vogliono evitare è un’altra, molto più seria, scomoda e impopolare: la questione dell’autorità. A questo riguardo sono significative queste parole che si impongono per la loro forza e la loro evidenza, legate ad una lunga sperimentazione sul campo: «Paradossalmente, alla crisi del principio di autorità non corrisponde affatto una messa in discussione dell’autoritarismo. Anzi proprio questa crisi apre la strada a varie forme di autoritarismo. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, lungi dall’inaugurare un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. […] Il principio di autorità si differenzia dall’autoritarismo in quanto rappresenta una sorta di fondamento comune ai due termini della relazione, in virtù del quale è chiaro che uno rappresenta l’autorità e l’altro ubbidisce; ma allo stesso tempo è convenuto che entrambi ubbidiscono a quel principio comune che, per così dire, predetermina dall’esterno la relazione. Il principio di autorità è quindi fondato sull’esistenza di un bene condiviso, di un medesimo obiettivo per tutti». (M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2015).

È solo a partire da questa questione che si può affrontare seriamente e responsabilmente qualsiasi discorso sulla situazione giovanile, sotto ogni punto di vista: educativo, affettivo, intellettuale, interiore, culturale, sociale. Solo un ritrovato connubio, a livello planetario e istituzionale, tra autorevolezza e autorità potrà spalancare orizzonti nuovi ed efficaci per affrontare l’attuale catastrofe educativo-didattica.

Da che mondo è mondo, in qualsiasi ambito culturale e in qualsiasi orizzonte esistenziale, c’è un solo modo per interagire con le giovani generazioni e permettere alla loro energia, ai loro sogni e alla loro forza di cambiamento di attuarsi e mettere le basi per un nuovo mondo: dare tutto e chiedere tutto. Qualsiasi via di mezzo è solo uno zuccherino inutile e pericoloso.

Ma per fare questo occorrono adulti in grado di rischiare, di metterci la faccia, di essere pronti a perdere le proprie sicurezze e soprattutto, in alcuni momenti, di saper dire – appunto con autorità e autorevolezza – anche tutto ciò che è scomodo e impopolare

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