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Risposte africane ai cambiamenti climatici

di Liliane Mugombozi

- Fonte: Città Nuova

Liliane Mugombozi Autore Citta Nuova

Una recente ricerca condotta in cinque Paesi africani mostra sviluppi incoraggianti nella gestione delle catastrofi e degli eventi climatici estremi. Cresce anche la consapevolezza della necessità di una migliore pianificazione e di un sostegno condiviso tra governi e società civile

Un gruppo di donne si organizzano per la vendita del pesce nella zona del lago Barongo, in Kenya, dopo un’alluvione che ha causato l’improvviso aumento del livello dell’acqua con conseguenze sulla vita delle popolazioni locali e dell’ecosistema. EPA/Daniel Irungu

In Africa, la gravità e la frequenza dei disastri naturali sono aggravate dalla deforestazione e dai cambiamenti climatici, che hanno un impatto significativo su milioni di persone, compromettendo l’agricoltura e le risorse idriche e causando notevoli perdite economiche. Olasunkanmi Habeeb Okunola, ricercatore nigeriano esperto di riduzione del rischio di catastrofi e adattamento climatico, ha recentemente condiviso su Conversations i risultati di uno studio da lui condotto su come cinque Paesi africani — Kenya, Nigeria, Egitto, Namibia e Repubblica Democratica del Congo (RdC) — stiano cercando di ridurre l’impatto delle catastrofi.

Il dottor Okunola osserva che, quando sentiamo il termine catastrofe, immaginiamo inondazioni, siccità o terremoti, cioè eventi naturali. Tuttavia, ciò che trasforma veramente questi eventi in catastrofi è il livello di preparazione delle società ad affrontarli. Un’inondazione diventa disastrosa quando le persone non dispongono di alloggi sicuri, sistemi di allerta tempestivi o assistenza d’emergenza. Le catastrofi, dunque, rivelano le lacune strutturali nella prevenzione e nella risposta.

Il Quadro di Sendai

La ricerca ha analizzato i progressi di questi Paesi nel raggiungimento degli obiettivi del Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi 2015-2030, adottato il 18 marzo 2015 durante la Terza Conferenza mondiale delle Nazioni Unite a Sendai, in Giappone. L’accordo — risultato di consultazioni iniziate nel 2012 e negoziati intergovernativi nel 2014, supportati dall’Ufficio ONU per la riduzione del rischio di catastrofi — mira a rafforzare la governance del rischio e la resilienza delle comunità. Uno degli obiettivi principali, la priorità 2, riguarda il miglioramento dell’organizzazione e delle azioni dei Paesi in caso di disastro: responsabilità ben definite, leadership efficace e sostegno alle comunità locali. Dopo aver analizzato oltre 400 politiche, leggi e relazioni governative, il dottor Okunola spiega: «Mi sono concentrato su cinque aree chiave — regole chiare, azione locale, inclusione, condivisione delle informazioni e collegamento tra pianificazione delle catastrofi e sviluppo — per capire cosa funziona e dove sono necessari miglioramenti».

Cosa funziona

Secondo Okunola, «ci sono sviluppi promettenti». I cinque Paesi hanno elaborato piani nazionali e agenzie per la gestione delle catastrofi a vari livelli di governo, per coordinare la risposta ai rischi climatici. La Namibia ha formato comitati locali per coinvolgere direttamente le comunità nella pianificazione; in Kenya e Namibia, la gestione del rischio sta iniziando a espandersi oltre le capitali; in Nigeria, alcuni gruppi della società civile svolgono un ruolo crescente dove il sostegno statale è limitato.

L’Egitto ha iniziato a integrare le questioni legate ai disastri nei piani di sviluppo nazionali, mentre nella RdC la risposta alle emergenze è coordinata soprattutto nelle aree di conflitto. Sebbene questi strumenti non funzionino sempre in modo uniforme, mostrano un impegno crescente ad agire su più fronti. Alcuni Paesi stanno inoltre migliorando la condivisione delle informazioni e testando sistemi di allerta precoce per inondazioni e altre emergenze. Sono segnali positivi del passaggio da una logica di mera risposta a una di prevenzione e resilienza, obiettivi centrali del Quadro di Sendai.

Le lacune da colmare

Nonostante i progressi, la ricerca mostra che la preparazione è ancora disomogenea. In molte aree, le responsabilità tra agenzie nazionali e locali si sovrappongono o restano poco definite, generando ritardi e inefficienze. Spesso le voci locali non vengono ascoltate nelle decisioni cruciali: gruppi di donne, giovani e abitanti di insediamenti informali risultano ancora esclusi dai processi di pianificazione e ricostruzione post-disastro. Un’altra criticità è l’accesso limitato alle informazioni sui rischi. I dati disponibili sono spesso frammentari o troppo tecnici, e non sempre comprensibili per le comunità interessate. Infine, il rischio di catastrofi è ancora trattato come una questione separata, anziché parte integrante delle politiche su alloggi, sanità, istruzione e sviluppo urbano.

Verso una resilienza condivisa

Il dottor Okunola ritiene che «queste sfide non cancellano i progressi, ma mostrano la necessità di costruire sistemi inclusivi, coordinati e radicati nelle realtà locali». Conclude affermando che «per ridurre l’impatto delle future catastrofi in Africa, la governance deve essere vista non solo come azione governativa, ma come una responsabilità condivisa, che coinvolga comunità, società civile e cittadini. È da lì che nasce la vera resilienza».

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