Rinasce il gioco della Luce contro le Tenebre

Al via in Guatemala la seconda Coppa del mondo maya di pok-ta-pok, la pelota mesoamericana. Un gioco ancestrale: un modo per evitare la scomparsa definitiva di una civiltà intera

Si pratica da almeno 3.600 anni, ma la sua epoca d’oro è tramontata da mezzo millennio, all’epoca della conquista dell’America. Eh sì, il pok-ta-pok – o “pelota maya” – non ha di certo sfondato. Ma ci riprova. Dal 28 settembre al 1° ottobre, il Guatemala è in effetti sede della seconda Coppa del mondo della specialità. Coppa del mondo… del mondo maya, naturalmente. Ovvero l’area meridionale del Mesoamerica: la penisola messicana del Yucatán, il Guatemala, il Belize, il Salvador e la parte occidentale di Nicaragua, Honduras e Costa Rica. Anche se la loro civiltà è solo un lontano ricordo, i maya esistono ancora. Furono un popolo dall’architettura monumentale, all’avanguardia in matematica ed astronomia e dalla cultura raffinata. Oggi sono circa 1 milione e mezzo, quasi tutti in Messico, praticamente tutti contadini. E continuano a parlare la loro lingua ancestrale.

È in Mesoamerica che si sono riscontrate testimonianze archeologiche di giochi con una palla di caucciù, anche se tale pratica faceva parte anche di culture più settentrionali, presenti persino in Arizona e New Mexico. Le regole del gioco praticato dai maya non sono del tutto chiare, e sicuramente esistettero varianti a seconda della zona dell’epoca. I famosi cerchi di pietra attraverso i quali far passare la palla per una vittoria sudden death, per esempio, furono introdotti tardivamente.

Quello che è certo è che il pok-ta-pok (nome onomatopeico del suono prodotto dai colpi e dai rimbalzi contro avambracci, pareti e, di nuovo, avambracci) nacque per fini rituali. Il Popol Vuh, equivalente del Libro della Genesi per i maya, narra che nei remoti tempi della creazione dell’universo, i fratelli Hunahpú e Ixbalanqué furono incaricati di affrontare i guardiani di Xibalbá – l’inframondo – che provocavano ogni tipo di disgrazia e malattie nel mondo degli uomini. La lotta si decise con una battaglia di forze cosmiche che coinvolgeva gli astri, in una mitologica partita di pok-ta-pok giocata a Chichén Itzá, la capitale spirituale maya. Hunahpú e Ixbalanqué, vincitori, ebbero l’onore di essere sacrificati, ovvero divinizzati, e diventarono il sole e la luna. La palla rappresenta da allora proprio il Sole, e le due squadre se la contendono cercando di far prevalere, rispettivamente, Luce o Tenebre.

«È un rito di iniziazione, morte e rinascita, che legittima l’azione militare e il potere politico», illustra Elder Aceituno, membro del comitato organizzatore di questa seconda Coppa mesoamericana. Quando arrivarono gli spagnoli, pare che il pok-ta-pok fosse ormai una pratica profana. Almeno in alcune zone. Ci si giocava beni di valore e persino schiavi. Le autorità lo proibirono. La palla pareva fosse posseduta dal diavolo, tanto si muoveva. E nei centri urbani più importanti aveva ancora un “pericoloso” ed eretico significato religioso. Le partite si giocavano tra due squadre maschili di due-sette guerrieri, in terreni scavati leggermente al di sotto del livello dei centri abitati (per simbolizzare l’inframondo) per lunghe ore, fino al tramonto. Il campo era di dimensioni notevoli. Se ne sono ritrovati anche di 170 metri per 69. Il regolamento di questa “seconda epoca” prevede invece arene di 30 metri per 15 e squadre di quattro giocatori che si affrontano in due tempi di 15 minuti. Con un movimento del fianco, del gomito o dell’avambraccio destro si cerca di spedire la palla – che pesa tra i 3 e i 5 kg – oltre il fondocampo avversario. Oppure la si utilizza per colpire un avversario nelle parti del corpo non autorizzate per colpirla, come la schiena o le estremità. La partita finisce ed è vinta, qualsiasi fosse il punteggio fino a quel momento, quando una squadra infila uno dei due cerchi fissati lungo le pareti laterali del campo. A seconda delle varianti, si potevano utilizzare ginocchi, cosce e/o la testa, ed è possibile o no far rimbalzare la sfera. Anticamente, era uno sport di contatto, nel quale era lecito ostacolare anche duramente l’avversario. Non di rado si finiva insanguinati.

Oggi questo antico sport – chiamato tlachtli nella lingua náhuatl e taladzi in zapoteco – sopravvive in alcune località de Messico e del Guatemala con il nome di ulama (da ulli, gomma: ancora oggi hule significa gomma e plastica in vari paesi dell’America Latina). Da alcuni anni, associazioni indigeniste del continente si adoperano per recuperare le loro tradizioni ancestrali, in pericolo di estinzione come i loro stessi popoli. Nel 2015, la prima edizione dei Giochi Olimpici Indigeni, disputata a Palmas, in Brasile, presentò anche una dimostrazione di pol-ta-pok. Nello stesso anno, il Messico organizzò la prima coppa “mondiale”, o più prosaicamante mesoamericana, di questo sport ancestrale. Proprio il Messico difenderà il titolo, che si contenderanno anche Guatemala, Belize, El Salvador e Honduras, che ha da poco costituito la federazione nazionale. Il presidente dell’Associazione giochi e sport autoctoni e tradizionali dello stato di Campeche, William Chan, ha spiegato, insieme al presidente della giovane Associazione Centroamericana di Poktapok e dal titolare del Consiglio supremo Maya, che la pratica della pelota maya è incipiente in questo Stato del Sud del Messico. È solo da sei mesi, infatti, che 10 giovani del municipio di Tenabo, hanno cominciato a giocarlo, «ed hanno potuto partecipare al secondo campionato regionale a Acanké (Yucatán), con una squadra dello Stato di Quintana Roo e di due dello Yucatán».

Ma l’entusiasmo è notevole. In fondo, un “bis” della coppa non fa mai male. In Guatemala, è in atto una campagna per diffondere questo “antico e nuovo” sport fra i giovani. Per il piccolo Belize, questa è un’opportunità culturale da non perdere per far conoscere il suo più autentico profilo culturale, ed anche in Salvador il “gioco della luce e delle tenebre” comincia ad affascinare.

 

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