Riccardo III

Dal 1908 a oggi sono molteplici le trasposizioni cinematorgrafiche dell'opera più tragica tra i drammi shakespeariani. L'ultima, in uscita il 30 novembre è Riccardo va all’inferno della regista Roberta Torre. Il personaggio ci fa entrare in contatto con le nostre frustrazioni e i nostri limiti, con la nostra parte meno amabile e più inquietante    

Riccardo III e il cinema: una relazione antica, solida e vivissima. Che parte dagli albori della settima arte – la prima trasposizione è del 1908 – e arriva fino ai giorni nostri, dal momento che la regista Roberta Torre ha appena presentato al Festival del cinema di Torino il suo Riccardo va all’inferno (in sala dal 30 novembre): versione musical, libera e malavitosa dell’originale. Un film, quello dell’autrice milanese appassionata di Sud, ambientato nell’estrema periferia romana: il “Tiburtino Terzo” per essere precisi, dove la famiglia Mancini spaccia e detiene il potere, con un Massimo Ranieri – nei panni di uno dei fratelli – calvo e spietato, straordinario nelle assonanze col re folle e invidioso e ovviamente sublime quando mette in musica la sua straordinaria voce.

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Esperimento interessante, quello della Torre, rischioso e imperfetto, visivamente accecante ma che per forza di cose dovrà sgomitare parecchio per trovare posto tra le memorabili trasposizioni cinematografiche del capolavoro scespiriano.

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Brilla, nella lunga lista degli spin-off per il grande schermo, l’interpretazione titanica di Laurence Olivier del 1955: quel Riccardo III da lui stesso diretto che è ricchissimo di valore cinematografico e non è per un solo istante mero teatro filmato (anche se Olivier non credeva molto in Shakespeare al cinema, pensate un po’..).

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Esiste anche una rielaborazione di Riccardo III del grande Roger Corman, del 1962: La torre di Londra, con protagonista Vincent Price, e non va dimenticato il poderoso documentario di Al Pacino: Looking for Richard, presentato a Cannes nel 1996 – sezione Un certain reguard – che è un laboratorio attraverso cui il grande attore americano documenta il triennale lavoro di preparazione del suo Riccardo III a teatro.

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L’interprete di Scarface, alle prese con la regia del sommo testo inglese, si pone domande e le stesse rivolge a critici, normali spettatori (anche a un tassista) e ad altri attori e registi, circa il personaggio storpio, gobbo e malsanamente assetato di potere. È una profonda immersione, quella di Al Pacino nel testo originale, che partorisce una forma ibrida di finzione e di documentario, di certo coraggiosa e impegnativa per lo spettatore, ma anche buonissima per spiegare l’immortalità del personaggio, quel suo essere pulsante narratore di sentimenti e di passioni umane immutabili nel tempo. Nel confronto collettivo alimentato dal regista è presente anche Kevin Spacey,  che a teatro, dopo quella lunga esperienza con Al Pacino, ha poi fatto rivivere densamente – con la regia di Sam Mendes, già suo compagno di lavoro in American Beauty – il personaggio perfido e bramoso di salire al trono.

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A quell’esperienza va naturalmente collegata la lunga saga di House of Cards, che è televisione, certo, e non è cinema, ma il confine tra serie e film, di questi tempi è spesso sottile fino all’invisibilità, e soprattutto questa serie tanto popolare targata Netflix, che parla di un politico americano crudelissimo scalatore sociale – tale Frank Underwood – modella un personaggio che somiglia tanto tanto al nostro “caro” Riccardo III,  e impasta, quindi, una materia antica e universale, in una parola sola shakespeariana. Frank Underwood è Kevin Spacey, il quale ha sempre dichiarato il profondo legame tra il suo personaggio e Riccardo III; se sua moglie Claire (Robin Wright) ricorda Lady Macbeth per come allena e sprona il marito, per come lo sorregge quando la stanchezza e la delusione offuscano il suo obiettivo, dentro Frank Underwood respira di continuo Riccardo III: come il Re shakespeariano egli brama, invidia, corrompe e incanta con genialità. Brucia l’avversario sullo scatto e fredda chi sta tra lui e il potere. Vestito da altruista, Frank incarna l’egoismo più profondo, ricicla la caduta in occasione propizia e concede al pubblico la verità e il segreto, guardando in camera e sfondando la quarta parete, anticipando la strategia e la reazione della vittima, proprio come ha sempre fatto l’archetipo dell’infinito William. Ogni occasione è buona per ritrovare Riccardo III, a teatro, al cinema o in una serie televisiva; con lo scopo di entrare in contatto con le nostre frustrazioni e i nostri limiti, con la nostra parte meno amabile e più inquietante. Non per imitare le sue strategie e il suo agire, ma al contrario per gestire la nostra umana fragilità in maniera opposta a come fa lui, che altro non fa che provocare e provocarsi dolore, camminando continuamente dentro il suo inferno.

 

 

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