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Raffaella, la popa di Folgaria

di Ilaria Pedrini

Una bambina speciale, non autonoma. Una donna generosa, una famiglia numerosa

Illustrazione di Marta Signori

Molti lettori di Città Nuova sanno che, nel dialetto trentino, “popa” sta sia per bambina che per figlia. Come l’analogo maschile “popo” ha dunque un significato molto ampio. Nel paesetto di Folgaria però, quando si dice “la popa”, si pensa solo a lei, Raffaella, che vi arrivò nel 1972, quando aveva due anni.

I genitori, pure trentini, erano poveri e di figli ne avevano già tre (altri due sarebbero arrivati). Come poteva accadere a quel tempo, le assistenti sociali pensarono bene di suggerire che quella bambina, speciale perché affetta da una forma grave di encefalopatia congenita, venisse affidata a qualcuno altrettanto speciale da spendere tempo per lei, tanto tempo.

E si può ben immaginare il tempo richiesto da una piccina paffuta che non camminava, che non avrebbe parlato o mangiato autonomamente, che si esprimeva a modo suo, talvolta eccitata, gridando e picchiandosi, o picchiando gli oggetti o le teste dei bambini attorno, ma pure capace di ridere forte, e di abbracciare.

Si arrivò al nome di una donna – Maria Ciech – generosa di suo, dentro una famiglia numerosa che abitava una casa larga, a tre piani, con appartamenti, soffitte e scantinati, collegati da scale e pianerottoli, adatti all’andirivieni delle 4 famiglie dei fratelli Ciech, ricche di bambini.

Maria non era sposata. Viveva nella casa, in un appartamentino con papà Egidio di 87 anni, rimasto vedovo. A lui chiese con trepidazione il parere sulla proposta delle assistenti sociali. Il sì di papà determinò l’ingresso ufficiale di Raffaella in quella famiglia patriarcale, logisticamente nella cameretta al piano terra, col lettino accanto a quello di Maria. Raffaella capì ciò che c’era da capire e la chiamò “mamma”, anche se nei primi tempi i suoi genitori e i fratelli salivano spesso dai Ciech a trovarla.

La frequenza della scuola materna fu subito un grosso ostacolo. Altri tempi; i modi spicci e aggressivi della popa, compresi morsi e pizzicotti, mettevano in crisi le famiglie dei compagnetti che protestavano puntualmente, tanto che Raffaella si prese persino una solenne “sospensione”. Ma anche Maria non fu da meno degli altri genitori e protestò, come si deve.

Il giorno appresso ci fu un’ispezione e Raffaella tornò alla scuola materna, anzi, ci tornò a tempo pieno e con un’assistente. Le assistenti in verità non reggevano a lungo con lei: in un solo mese, alle elementari, per 5 volte l’assistente incaricata si era arresa e dovette venir sostituita. Con la sesta Maria entrò in azione e fece all’insegnante un suo saggio discorsetto: «È facile seguire i bambini che apprendono. Tu non devi pensare di insegnare qualcosa a Raffaella, devi solo volerle bene». Bastò perché la maestra capisse il suo mestiere e la relazione si distese fino alla fine dell’anno.

Finite le medie, a Raffaella si aprì l’opportunità di un centro diurno a Rovereto, a 25 km da Folgaria. Anni dopo, in un diverso piano dello stesso caseggiato, fu avviata una residenza protetta, una “casa famiglia” che gradualmente ospitò Raffaella per l’intera giornata.

Raffaella, seduta a terra, attorno ai cugini adottivi nel cortile di casa a Folgaria.

Gli anni passavano anche per Maria e quel sollievo le era ormai indispensabile e benedetto. Tuttavia ogni giorno c’era – e c’è fino al presente – il doppio appuntamento della telefonata: alle 11 e alle 18.

Così del resto ogni mercoledì si ripete il rito del viaggio a Folgaria, con il pulmino che si arrampica sui tornanti verso l’altopiano. Maria l’aspetta e nell’attesa trasforma l’arredamento della cucina. Copre i mobili con un telo e vi dispone i palloni gonfiabili, i mattoncini di costruzioni, lo scatolone della carta e dei colori, i dischi in vinile prediletti da sparare nel mangiadischi a tutto volume. Tutto è lì, per la popa, come un tempo.

«Mamma, io stanca…», segnala il momento di lasciare la cucina caotica e di andarsi a stendere nella cameretta, dove occhieggiano i pupazzetti e le bambole, oppure «Mamma, uovo!» e, immancabile, il «Mamma, caffè, schiuma!». Per un giorno Raffaella vi ritrova il suo mondo, con la geografia casalinga di sempre: una casa e una mamma fedele, fino ad oggi, ai suoi 54 anni.

Ultimamente, nei frequenti periodi di ricovero che Raffaella ha trascorso in ospedale, è toccato a Maria scendere a Rovereto in pullman, per visitarla, di mercoledì. Non sono mancate mai le preoccupazioni e nelle preoccupazioni la fiducia nella vita.

La popa sembra aver assorbito questa serenità solida che ormai fa parte di lei. Ovunque si trova bene ed è molto ben voluta; pure in ospedale si sente a casa e tutto attorno è suo. All’arrivo di Maria, Raffaella le rivolge uno sguardo indescrivibile ed un saluto sbrigativo: «Ciao, mamma! Vai, vai a casa!».

Amore che va e che torna, lungo quanto la vita. Vita lunga quella di Maria che ha fatto 90 anni da poco. La mattina di quel suo compleanno, a Folgaria sono state fatte suonare a festa le campane di una chiesetta. Nella foto ricordo sulla piazza sono stipati tutti i Ciech, le 7 generazioni dei nipoti per un totale di 60 persone, arrivate a sorpresa anche da Roma.

Ma il pensiero sintesi corre subito a Raffaella. «La popa? È stata un dono, immenso, e continua ad esserlo – lo ripete Maria, e le ridono gli occhi –. Se saremo giudicati sull’aver dato da mangiare all’affamato, e se il lavoro è pane, Raffaella ha dato da mangiare a tanti, a tante famiglie, perché per assistere lei tanti hanno potuto lavorare».

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