A Kyiv c’ero sempre arrivato con l’aereo, due ore scarse di volo da Roma. Questa volta ci arrivo dopo un periplo di quasi 24 ore, o forse qualcosa di più, via treno. La guerra recide le tante vie di comunicazione possibili, sia materiali che spirituali, ma non riesce mai, o quasi mai, a isolare completamente. Rende più difficili commerci e relazioni umane, ma non ha quasi mai la forza di annullare la vocazione sociale della persona umana.
Converso con un giovane passeggero che siede accanto a me nel lungo percorso che mi conduce in 14 ore di treno da Przemyśl a Kyiv, via Lviv, Ternopil, Khmelnytsky e Vinnytsia, un ricercatore universitario che resta a disposizione dell’esercito per il quale già lavora, essendo un esperto di guerra digitale. «In realtà sono un esperto di processi di pace digitali, o se vuoi di lotta alla guerra digitale. La mia esistenza, e quella dei miei concittadini è stata completamente ribaltata dall’invasione russa. Preferirei occuparmi di semplici virus informatici lanciati dagli hacker che controbattere attacchi che potenzialmente possono provocare morti e spargimento di sangue. Spero proprio che la guerra finisca presto». E chiosa: «Ho il solo desiderio di tornare a bere birra con gli amici nel centro della mia Kyiv senza timore di venire interrotto dagli attacchi dei droni iraniani o dagli allarmi per i missili russi».
Stamani, a Przemyśl, Polonia: Olena cerca di riaprire relazioni messe tra parentesi. In fila al freddo e al gelo, in attesa di passare il posto di frontiera e di essere fatti salire sul treno, due ore di attesa a meno 5 gradi. La sua prima relazione da tenere viva è ovviamente quella col marito, che presta servizio tra i carristi da qualche parte nel Donbass. Olena non sa se sia ancora vivo, né tantomeno dove sia, non lo può sapere per sicurezza, sua e del coniuge. Una volta al mese, con una telefonata schermata e criptata riesce a parlargli per qualche minuto. Accanto a lei scorrazza nella neve un fringuello umano «che non conosce il papà, non ha avuto il tempo di registrarne profilo e voce nel suo cervello infantile». Chissà come riusciranno a sentirsi padre e figlio; ma Olena veglia sullo sperato ricongiungimento familiare.
Prima di partire, sempre a Przemyśl, avevo incontrato alcuni frati minori francescani che hanno il proprio convento a due passi dalla stazione-frontiera. «Dal 25 febbraio – mi dicono − dall’indomani della prima invasione russa, abbiamo dovuto far fronte alle diverse ondate di profughi che si sono susseguite, l’ultima delle quali è quella attuale che qualcuno definisce “termica”, perché provocata dalla mancanza di elettricità e quindi di riscaldamento, soprattutto donne, vecchi e bambini. Il nostro servizio di accoglienza è sì quello di dare un piatto di cibo per rifocillarsi e un tetto per riposare, ma è innanzitutto quello di riconfortare, di cercare di far credere loro che il mondo non è fatto solo di cattivi. Dobbiamo, attraverso le nostre relazioni di conforto e di attenzione, far credere loro che l’amore umano è ancora un orizzonte plausibile e reale».
Dopo una notte breve, a Kyiv gli amici ci vogliono accompagnare a fare un giro dalle parti di Irpin, Bucha e Hostomel, cioè la zona a 15 kmi a Nord della capitale dove, nella primissima fase della guerra, i russi erano arrivati e volevano impiantarvi una testa di ponte per invadere la capitale e fare cadere il governo e il presidente Zelensky. Sappiamo come è finita. Col mio “cannone” Nikon inavvertitamente fotografo un posto di blocco militare. Due minuti e la nostra macchina viene obbligata a fermarsi in modo brusco da un’Audi nera da cui scendono tre uomini armati in grigioverde. Capisco il malfatto, mi redarguiscono come un ragazzino. Il “capo” non sembra un militare di carriera, ha tutto l’aspetto di un professore di letteratura o qualcosa di simile. Ci capiamo, mi fa cancellare le foto incriminate, poi il sorriso, la stretta di mano sincera e l’invito: «Scrivi delle nostre tenacia e determinazione, da qui non arretreremo di un minuto. Viva l’Italia».
Ancora, dinanzi alla Casa Padre Pio, dove ha sede una associazione umanitaria, converso con una determinata donna originaria della Moldavia ma sposata a un ucraino, e ormai «ucraina al 101%». Anche lei determinata: mi sta raccontando delle azioni in favore delle donne rimaste vedove con bimbi piccoli a causa della guerra, e del rito che permette di assorbire il lutto, cucinare assieme ai figli il piatto preferito del marito morto in trincea, quando suona l’allarme aereo e udiamo assai vicino lo scoppio di un colpo della contraerea, che forse ha allontanato la minaccia. Scendiamo nelle cantine dell’edificio per ripararci, e la lunga conversazione fraterna ci fa dimenticare i missili russi.
Potrei continuare per un’ora su quest’onda. A Kyiv e dintorni le relazioni sono più vive che mai. Non è possibile invitare i lettori a recarsi a Kyiv per ritrovare il senso del reale – la guerra non è fiction ma semmai propaganda – e capire ancora una volta che la vita è fatta di relazioni.
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