Che umanità sofferente, sbandata, incerta. A volte pare colpita da un destino di sofferenza ineluttabile. Così nel film di Paolo Virzì Cinque secondi, l’avvocato di grido Adriano ha mollato tutto e si è rifugiato in una stalla riadattata in campagna, solo. Dentro di sé ha un dolore amaro da cui non riesce a liberarsi: casualmente ha provocato la morte della figlia; i suoi non gliel’hanno perdonato, e nemmeno lui a sé stesso. Naturalmente c’è il processo; l’ex moglie è infuriata, il figlio ragazzino vive con la madre e lui si inselvatichisce nella solitudine rabbiosa. Arriva un gruppo di giovani, liberi e sciolti, quasi fuori dal tempo, a coltivare un vigneto smorto in quel luogo desolato. Adriano dapprima li fugge, poi una ragazza incinta (Galatea Bellugi) gli si avvicina: lentamente l’orso si placa, diventa umano, riscopre il valore dei rapporti, arriva ad assistere al parto della ragazza, lasciata sola dalla “comunità”, che ingenuamente vorrebbe fare da padre al nuovo nato. Ci sarà il processo: come finirà?

Una foto di scena del film “Cinque secondi” di Paolo Virzì, in uno scatto diffuso il 17 ottobre 2025. Foto: ANSA/Ufficio Stampa
Il film, dal titolo insolito — lo si capisce vedendolo —, è diretto con acume e commozione da Virzì, che inscena non solo i turbamenti degli adulti di fronte alla malattia e alla morte, ma anche l’immaturità dei sogni giovanili, di fatto impreparati alla vita e duri con le famiglie d’origine. Il regista dice molte cose lungo il racconto, ma senza appesantire. Le fa dire in particolare al protagonista, un Valerio Mastandrea in stato di grazia: la persona, il volto, la camminata, la voce esprimono in pienezza l’essere di un uomo distrutto, ma anche riconciliato forse con la vita grazie alla possibilità dell’amore. Speranza dunque per lui e per la sorella svanita (Valeria Bruni Tedeschi), che pure lo incita alla vita senza tuttavia comprenderne le scelte. Iniziato in modo lento, il film poi si apre, respira, cresce insieme ad Adriano. L’aria e la luce cambiano, e un rosso orizzonte potrebbe schiudere la porta del buio amaro verso qualcosa di nuovo e di bello. Forse di migliore.
Sarà così anche per il falegname disoccupato James (un bravissimo Josh O’Connor, dall’espressione innocua di una persona qualsiasi), figlio di un giudice, con moglie e figli, che vive di espedienti e piccoli furti? Chissà. Il film The Mastermind, diretto con sagacia e colpi di scena da Kelly Reichardt, racconta la storia di un furto d’arte: le tele del pittore Arthur Dove in un museo della provincia americana che James mette in atto con due fuorilegge sbandati. Risultato? La polizia lo trova; lui fugge e vaga per gli States, tra amici che non lo vogliono, bisogno di soldi, piccoli furti, fino a essere arrestato durante una manifestazione di piazza. È la storia di un uomo qualunque, anche limpido, a cui non ne va bene una. Il suo destino finale è tutto da scoprire. Ma oltre al fatto che James vede il suo mondo crollare e scopre la vera solitudine, il disagio, la fine delle sicurezze affettive, il regista narra, attraverso di lui, la vita di una nazione dove corruzione, menzogna, proteste di piazza e violenze della polizia sono fatti reali, vivi. È un’altra America: la fine dei sogni ingenui. Il film non si interroga: mostra. Lascia a noi il commento. Fra dialoghi molto serrati e un andamento da thriller leggero, l’uomo qualsiasi — cioè noi — diventa simpatico, vicino nel suo smarrimento ingenuo, nel suo incerto futuro, in quegli occhi perennemente timorosi. Da non perdere.

Cannes (Francia), 24 maggio 2025 – Josh O’Connor, la regista Kelly Reichardt e John Magaro al photocall del film “The Mastermind” durante la 78ª edizione del Festival di Cannes, in programma dal 13 al 24 maggio 2025. Foto: EPA/Mohammed Badra/ANSA
Ancora una storia che diventa specchio di una nazione — in questo caso l’Iran — nel film Un semplice incidente di Jafar Panahi, Palma d’oro a Cannes. È infatti un semplice incidente d’auto che colpisce una famiglia: il padre, la figlia piccola, la moglie incinta del secondo figlio. L’uomo si ferma da un meccanico e viene notato da un operaio che, per via di una gamba di legno e del suo suono quando cammina, crede di riconoscere in lui il suo persecutore, quando si trovava in prigione per una manifestazione. Lo rapisce, lo vorrebbe uccidere, seppellirlo vivo, ma il dubbio lo attanaglia: è lui o non è lui? Anche perché, in prigione, bendato e torturato, non lo aveva mai visto. Si raccoglie un gruppo di vittime: una ragazza che sta per sposarsi, il suo fidanzato, una fotografa, un giovane violento. La storia, da piccola, si fa grande, perché Panahi, attraverso i personaggi, racconta il proprio Paese: strade spoglie con corvi, corruzione di poliziotti e politici, persecuzione degli oppositori e paura — tanta —, deserto nei cuori e nella natura.

Roma, 22 ottobre 2025 – Il regista iraniano Jafar Panahi arriva alla proiezione del film “Yek tasadof-e sade” (Un semplice incidente) durante la 20ª Festa del Cinema di Roma. La rassegna si svolge dal 15 al 26 ottobre 2025. Foto: ANSA/Ettore Ferrari
L’uomo rapito e bendato alla fine chiederà scusa a fatica, mentre una donna violentata gli rinfaccia le crudeltà del Paese e del regime: un’accusa violenta, in un film girato di nascosto e che certo non si vedrà in Iran. Perdono o vendetta? La discussione tra le vittime è costante, sul tono del dolore, della rabbia e della volontà di chiudere non solo all’odio, ma anche al regime. La vendetta sarà la strada giusta?
L’uomo omicida rimarrà legato e bendato a un albero, dentro un paesaggio lunare, ma potrà liberarsi perché qualcuno delle vittime avrà aiutato la moglie a partorire, in un gesto di umanità. Servirà forse alla pace in un luogo così disumanizzato? Chissà. Panahi ci dona un dramma morale di altissimo livello, attuale, dove l’uomo perseguitato continua a sentire in testa il suono del passo del torturatore. Il dolore non si cancella. Da non perdere.