Pupi Avati e il difficile ruolo di padre

Tratta dal libro I ricercati, Padri e Figli nel cinema italiano d’oggi, intervista ad uno dei grandi registi italiani, che si è riscoperto padre anche grazie al suo lavoro
pupi avati
Pupi Avati, di Bologna. Regista.

 

Si può parlare di una sua trilogia sulla figura del padre.

«È una figura che mi ha interessato, perché ho la sensazione che nella disgregazione della famiglia che stiamo vivendo da qualche decennio, sia quella che più ha subito un livello di erosione, di diminuzione del suo ruolo, di interpretazione più scadente fra i ruoli in un contesto familiare. Essendo io padre, ho potuto in qualche modo compiere delle comparazioni tra le diverse stagioni della mia vita in cui mi sono trovato ad esserlo , interpretandolo magari non benissimo e quindi con sensi di colpa retroattivi che giungono quando diventi più consapevole.

Nella prima fase, quando sono prevalse nella mia vicenda umana le suggestioni del mondo, specialmente di carattere professionale, mi autoassolvevo dicendomi che lo facevo per la mia carriera. Lo ritenevo un fine nobile, senza rendermi conto che privavo i miei figli di quello che poteva essere un modello, di un esempio: una carenza, cui una figura materna – come è successo nella nostra famiglia – ha cercato in qualche misura di supplire, ma con i legittimi limiti che può avere una figura femminile.

Un figlio ha il diritto di avere una figura femminile e una maschile di riferimento, va educato all’interno di un contesto in cui siano rappresentati entrambi i due ruoli nel modo più corretto possibile. Nel nostro caso, mia moglie si è dedicata esclusivamente all’educazione dei nostri figli, mentre io mi sono sentito esentato da queste ragioni che riguardavano soprattutto la professione.

Alla luce dell’esperienza delle due fasi, la prima dell’ebbrezza del carrierismo e la seconda della resipiscenza, in cui mi sono reso conto di tutto ciò che non ho fatto e avrei dovuto fare, ho cercato affannosamente di recuperare».

 

Ne sono venuti fuori dei film, immagino.

«Ho maturato una conoscenza del ruolo paterno nel modo corretto e meno corretto, tale da potermi permettere di trattarlo in tre commedie diverse. La prima – La cena per farli conoscere –, la meno drammatica anche se è dolorosa perché è la storia di un padre, assomiglia un po’ a quello che sono io nel primo percorso. È la vicenda di un genitore che ha dedicato molto di sé al tentativo di emergere nello show business; ha approfittato del successo per conquistare donne e lasciare in giro per il mondo tre figlie addirittura, di cui si è disfatto e dimenticato, per poi ricorrere a loro nel momento del bisogno, quando tutto intorno a lui precipita e non sa più a chi rivolgersi. Si ricorda delle figlie e in qualche modo si ricostituisce un nucleo familiare. È quindi un film che per qualche aspetto ha un piccolo lieto fine, anche se lui muore, ma nella consapevolezza di avere ritrovato le figlie e loro il padre.

È già qualcosa, anche se non le risarcirà mai totalmente.

Il secondo film, Il papà di Giovanna, narra di un padre iperprotettivo. Io sono stato anche quello, nei momenti in cui, a causa dei sensi di colpa, si cerca di recuperare in un giorno quello che non si è fatto in dieci anni. Nel film c’è quindi un eccesso di presenza del padre sulla figlia emarginata dalla sua non avvenenza e dalla sua caratterialità spigolosa. Egli cerca di provvedere alla felicità della figlia attraverso una serie di artifizi che non sono tutti legittimi. Nel momento in cui la ragazza se ne renderà conto, compirà un gesto irreparabile, uccide la sua amica, la sua rivale e da quel momento il padre diventerà finalmente un padre consapevole. Egli la affiancherà nella sua regressione mentale, e pur di starle accanto, regredisce con lei. È commovente, struggente, questo padre a tutto che rinuncia a tutto, anche alla moglie per stare vicino alla figlia».

 

La moglie infatti ha una parte di contorno…

«Lei è emarginata, dalla complicità del padre e della figlia. Succede spesso nelle famiglie che ci siano delle corsie preferenziali. Esse fanno sì che nel rapporto fra un genitore e uno dei figli ci sia una affinità che non è comparabile a quella degli altri rapporti. La moglie paga il prezzo della sua avvenenza, ha la colpa di non essere come il marito e la figlia: loro hanno vissuto entrambi il rifiuto del mondo, al contrario di lei, che viene così privata dell’opportunità di dare un proprio contributo».

 

Questo è il secondo “tipo” di padre. Il terzo?

«È il padre indecente de Il figlio più piccolo: assomiglia di più al presente, ma, fortunatamente, assomiglia di meno a me. Qui non mi riconosco, invece mi ritrovo nel figlio. Come regista, mi trovo sul set con dei “figli più piccoli”, ragazzi che fanno gli assistenti volontari: spesso essi portano un senso di inadeguatezza con complessi di inferiorità o di superiorità mescolati, manifestando così ancora una incertezza della loro identità. Sono molto colti, intelligenti, con forti problemi di comunicazione: in genere, sono figli di madri separate. Sono giovani cinefili, ma figli di matrimoni andati male, con la madre che odia il maschio che l’ha abbandonata nel momento in cui sfioriva, sfogando la sua sofferenza nel contesto familiare, rappresentato dal figlio. Il quale rimane ostaggio di una situazione psicologica interna che rasenta l’invivibile. In me, questi giovani vedono una persona con cui confidarsi e a cui affidarsi. L’aspetto più commovente è dato dal fatto che questi figli hanno come padri talora delle persone scadenti, o terribili, che si sono comportate in modo indecente. Malgrado ciò, essi ne hanno nostalgia, vivono nell’illusione che il papà torni, lo amano comunque al di là del fatto di non venire riamati ,di essere dei rifiutati. Questa è anche la storia de “Il figlio più piccolo”».

 

Trova che nella società attuale esista parecchio cinismo?

«Gli esseri umani, quando diventano adulti, peggiorano. Quando si vive di opportunità è il momento in cui il contesto familiare viene messo più a rischio, perché è quello che offre di meno. All’inizio, da giovani, verso la donna ci sono attrazioni, pulsioni, diverse ragioni per cui si sta assieme; poi, subentra via via la deresponsabilizzazione, soprattutto da parte di questi genitori che se ne vanno. Abbandonano i ragazzi senza avvertire di cosa li privano, senza rendersi conto di aprire una cicatrice che mai si rimarginerà. Li lasciano menomati in qualche modo, con un buco dentro, per puro egoismo, perché andarsene è una colpa… Io penso che quando si genera un figlio, da quel momento in poi si è assunta una responsabilità definitiva. Io, a 71 anni, ho nostalgia di mio padre che ho perso a dodici anni. Quando esistono dei figli, tu non te ne puoi più andare, devi rispondere delle tue responsabilità nella formazione di un ragazzo che cresce solo a patto che abbia accanto a sé un padre e una madre, due figure essenziali e complementari».

 

Alla fine della trilogia, come vedi lei questo suo viaggio.

«Oggi, purtroppo, sono costretto ad essere pessimista. Siamo ormai nella mani dei tecnici, la scienza si è appropriata di tutti i concetti, li analizza, li esamina, li ingarbuglia ancora di più di quanto non sia necessario. Grazie all’alibi del relativismo in cui ognuno si produce una morale fai da te, a sua misura, è evidente che sarà difficile invertire la tendenza. Ormai gli adulti hanno conquistato una serie di privilegi dettati dal loro egoismo: sono tali da venire giustificati da forme ideologiche demagogiche che producono delle vittime, di cui nessuno si preoccupa. Io, che ne sono testimone, perché sono anziano e lavoro con i ragazzi, li vedo , li sento. Mi si attaccano, vorrebbero essere adottati. Le teorie che mettono al centro l’egoismo umano mi fanno orrore. L’occidente ha massacrato la famiglia, nessuno si vuole responsabilizzare attraverso una unione, tutti desiderano i vantaggi senza impegnarsi. Tutto ciò qualche danno lo produce, anche se nessuno lo dice, anzi se ne approfitta e poi scappa come un ladro».

 

 

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