Porte aperte a Camaldoli

Qust’anno si celebra il millenario del monastero e dell’eremo fondati da san Romualdo in provincia di Arezzo. Qui migliaia di visitatori ogni anno trovano, con l’ospitalità più fraterna, la testimonianza di valori fondamentali per l’equilibrio dell’uomo di oggi
Eremo di Camaldoli

«A Camaldoli ci sono arrivato per caso nel ’77 – racconta Lorenzo – in un momento molto particolare della mia vita: per vari motivi ero appena uscito da un’altra  comunità religiosa e mi trovavo nel buio più completo circa il mio futuro. Speravo che un breve soggiorno in quel luogo appartato del Casentino mi avrebbe aiutato a riflettere, a vedere più chiaro dentro di me…

«All’eremo, aprii il mio cuore ad uno dei monaci e ottenni di rimanere lì per molto più tempo di quello che solitamente si accorda ad un ospite. I primi giorni me ne stetti piuttosto per conto mio, più che altro a fare lunghe passeggiate nei boschi circostanti. Poi, pian piano, smisi di pensare ai miei problemi e mi guardai intorno: ecco una comunità viva, aperta, dove veniva salvata la solitudine con Dio e nello stesso tempo si era un tutt’uno con altri fratelli… Mi dissi: perché no? In fondo il mio sì a Dio l’avevo già detto, e per sempre; né potevo concepire una vita diversa, fatta di mediocrità e di compromessi. Chiesi di fare la prova per un mese, poi per un altro, un altro ancora…».

 

È vero, chi arriva a Camaldoli rischia di rimanerci. Lo sanno bene i giovani, provenienti dalle più varie esperienze, che negli ultimi anni sono entrati a far parte di questa famiglia religiosa che in questo 2012 celebra i  mille anni da quando il fondatore san Romualdo, qui giunto con alcuni discepoli, costruì a 1110 metri di altitudine le prime cinque celle e una piccola cappella. Egli sintetizzò il monachesimo di san Benedetto e la tradizione degli antichi Padri del deserto, realizzando così – unico esempio in Occidente – un felice equilibrio tra vita in comune e solitudine. Nel monastero i monaci testimoniano la comunione cristiana nel rapporto fra loro, nel contatto con i visitatori attraverso un ampio servizio di ospitalità, che si esprime anche con varie iniziative a servizio dei singoli come dei gruppi: ritiri spirituali, corsi di aggiornamento biblico, teologico e liturgico per sacerdoti, religiosi e laici. Nell’eremo invece, pur condividendo la preghiera corale e il pasto con i confratelli, ricercano Dio in un contesto di maggiore solitudine e preghiera.


Il fenomeno più appariscente però sono le diverse migliaia di visitatori che salgono quassù in tutti i mesi, con punte eccezionali tra luglio e settembre. Certo, la purezza dell’aria, le foreste secolari di abeti, faggi e castagni, la pace e il silenzio esercitano di per sé un’attrattiva potente su chi cerca di sottrarsi almeno un po’ al ritmo convulso della vita cittadina. Ma non è solo questo. Quassù la gente viene anche per “ossigenarsi” in altro senso: dal laico che vuol essere aiutato ad approfondire il suo cammino di fede, al parroco a corto di fiato per i troppi impegni pratici; dalla coppia in crisi, al drogato a cui «non gliene frega di niente»; dal monaco buddhista che desidera condividere un’esperienza di preghiera e di contemplazione, al tipo misticoide, alla suora in cerca della sua identità. Per molti, insoddisfatti da un’esistenza trascorsa inseguendo un qualcosa che ha rivelato presto o tardi la sua vuotezza, Camaldoli è una tappa spesso decisiva di un lungo, sofferto cammino di ricerca spirituale.

Ma anche il turista occasionale e svagato, ridiscendendo a valle non senza aver lanciato una frecciatina ai monaci («si scelgono sempre i posti migliori… favolose poi quelle casette, per trascorrerci un weekend!»), è difficile che non si porti via con l’immancabile “Amaro tonico” o, se di gusti più artistici, una riproduzione della Trinità di Rublëv, almeno un interrogativo su quello che ha visto e udito.


Anche se il primo impatto può essere condizionato da un certo cliché (i monaci sono tipi così e così), ben presto, specie se ci si ferma più di un giorno, si passa di sorpresa in sorpresa. Per esempio, scoprendoli aggiornatissimi su ciò che succede nel mondo e gente che lavora sul serio. Ma allora – vien da dire – non vivono fuori dalla realtà, tutt’altro!

Da qui al chiedere delucidazioni il passo è breve: nasce un’amicizia, mantenuta viva anche epistolarmente o con un notiziario mensile, e con essa il bisogno – per molti – di ritornare, per capire di più. Il colloquio personale è importante per confermare una scoperta, sbrogliare una situazione spirituale intricata, illuminare una sofferenza; tanti però ci arrivano anche solo guardando i monaci vivere.

 

Nonostante la crisi che tempo addietro ha toccato le comunità religiose, non escluse quelle benedettine, Camaldoli, con la geniale sintesi realizzata da san Romualdo fra la vita solitaria, propria degli antichi Padri del deserto e quella comunitaria diffusa in Occidente da san Benedetto, offre la testimonianza di un rigoglio insospettato. E ciò perché, grazie anche alla guida di superiori illuminati, ha potuto attualizzare la novità del Vaticano II, tanto da prospettare attraverso una riforma dall’interno un monachesimo che, senza venir meno a tradizioni plurisecolari, fosse accessibile anche ai giovani di oggi.

Quale riforma? Un rinnovato rapporto personale con la Parola di Dio, un recupero del silenzio, di una salmodia sobria cantata adagio, in modo da agevolare l’ospite che voglia inserirsi nell’onda della preghiera comunitaria (per molte persone la semplice condivisione di questa preghiera riscoperta, di una comunione con la Chiesa che non credevano più di ritrovare). E anche, fondamentale, una riforma a livello di rapporti umani: per esempio, questo puntare a un più profondo scambio fra i monaci, che ha attenuato il rigore dell’isolamento e reso inutili, nei refettori, i severi panconi addossati ai muri, ora sostituiti da più familiari e “comunicativi” tavolini; per esempio, verso tutti, un’accoglienza senza esclusione, che è un po’ il carisma di questa comunità.

Rientra in quest’ambito l’apertura, prima impensabile, a membri di altre confessioni cristiane, desiderosi di condividere per un certo tempo la stessa esperienza monastica. Ci si accorge così che dalla reciprocità dell’accoglienza va nascendo qualcosa che rivela i contorni di un’unità sperata che si fa certezza.

 

Percorro a piedi l’antica mulattiera, ora asfaltata, che dall’eremo porta al monastero, tra fittissime cortine di abeti dove, anche in pieno giorno, indugia un perenne crepuscolo. Il silenzio, impressionante, è tale che ti senti allo scoperto nei tuoi pensieri, indifeso, e sei costretto a chinarti su te stesso quasi per cogliere un richiamo che sorge dall’intimo. Ne sanno bene qualcosa i monaci; ma per chi non vi è abituato, questo silenzio può risultare perfino intollerabile. «Mi fa paura…», ha confidato un giorno ad uno di essi un giovane venuto dalla capitale. E allora non fanno meraviglia certe comitive distratte e caciarone, capitate da queste parti, che lo “combattono” ascoltando musica a tutto volume con gli auricolari.


A questa alienazione caratteristica della nostra epoca, fa da contrappeso l’unità interiore che i seguaci di san Romualdo si studiano di raggiungere e che rende così pregno di fascino e di significato il loro contatto. Mi tornano in mente le parole di un giovane monaco: «Nonostante i nostri limiti che pur ci sono, io vedo il monastero come un luogo dove, grazie all’armonizzazione di preghiera, studio e lavoro, è possibile per l’uomo un recupero di quell’equilibrio compromesso da questa società convulsa, rumorosa, malata di attivismo, così in contrasto con i ritmi biologici naturali; un luogo anche umanamente valido – al di là dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo – dove l’uomo può ritrovare sé stesso nell’affermazione di valori condivisibili da tutti, credenti e non credenti.


«Nel mondo in cui viviamo, diversi sono i fenomeni che tendono a disgregare l’uomo. Per esempio il consumismo. A chi entra a far parte della nostra comunità, noi cosa offriamo? Una stanza, un tavolo, un letto, una Bibbia; e lui s’accorge che può benissimo fare a meno di tante altre cose, che può essere felice lo stesso: è il recupero di una semplicità a cui non siamo più abituati. «Ancora, la vita di preghiera mette in crisi l’efficientismo del mondo moderno. In fondo, cosa c’è di più gratuito della preghiera? Da un punto di vista puramente umano, non “produce” niente. E il fatto che esistano uomini e donne che spendono un’esistenza a pregare, può essere di stimolo a molti per rivedere la loro vita, capire che può esserci un’alternativa a ciò che la società odierna propone».
 

La pace, la mitezza, l’accoglienza reciproca, il perdono, così come i monaci cercano di viverli tra loro: ecco altri valori che possono mettere in discussione un mondo che va verso la catastrofe atomica. «Secondo me – continuava quello stesso camaldolese – un monaco ha senso nella misura in cui è veramente sé stesso, cioè l’uomo della preghiera, del lavoro, dell’ascolto, l’uomo che accoglie, l’uomo del silenzio. D’accordo: non sarà chiamato a risolvere lui i problemi di questo mondo, però il solo fatto che esiste è già un richiamo, un segno che il mondo può cambiare. Se lui, un pover’uomo come tutti gli altri, per un dono del Signore – e anche per una risposta personale – riesce a vivere certi valori, allora l’uomo è autorizzato a sperare nel futuro». E si capisce il perché di queste folle qui a Camaldoli: è proprio per recuperare speranza, credibilità nell’uomo.

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