Poco “napolitano” il Goldoni di Scaparro

Un momento dello spettacolo

Il teatro di Goldoni è, forse, il più universale rispetto ad altri grandi autori, per la sua voracità di scrittura al servizio di un’indagine sull’uomo. Del suo tempo ci ha lasciato un ritratto spietato, attento com’era, alla vita che lo circondava, ai sentimenti e ai difetti di uomini e donne, attraverso personaggi che appaiono e scompaiono divenendo testimoni e simboli del proprio tempo. Come il Don Marzio de “La Bottega del caffè”, il gentiluomo napoletano abitato da una passione tanto impetuosa quanto disinteressata per il pettegolezzo e la maldicenza, attorno al quale ruota l’intera macchinazione narrativa.

Protagonisti sono biscazzieri disonesti, uomini che dilapidano la dote della moglie per il gran vizio del gioco, falsi Conti che mantengono ballerine e abbandonano le legittime consorti, nullafacenti che mettono in giro dicerie feroci (Don Marzio, appunto). Insomma, è un bell’insieme di vizi la Venezia che Goldoni pone a sfondo della commedia. Perché nel campiello dove Ridolfo tiene la sua bottega, fra case da gioco frequentate da bari, case compiacenti di signorine non proprio virtuose e locande non meglio identificate, si muove una ben strana umanità, corrotta e bugiarda anche se il lieto fine è assicurato.

Un’umanità nevrotica, squinternata, persuasa, fra l’altro, delle virtù taumaturgiche del caffè. Lo spettacolo che il regista Maurizio Scaparro ha allestito al Napoli Teatro Festival Italia, è quanto di più tradizionale si possa vedere in giro – comprese scene e costumi –, fedele a uno stile formale inappuntabile, rigoroso, ma fin troppo didascalico, senza particolari guizzi. Appassionato del mondo goldoniano cita qua e là “Una delle ultime sere di Carnovale” e “Il teatro comico”, e impagina la vicenda con un ritmo “allegro ma non troppo” nel quadro di una Venezia già volta, in pieno Settecento, alla sua inarrestabile decadenza che rischiava di dimenticare la sua grandezza e di cedere alle tentazioni di una progressiva mercificazione.

Tra i molti, forse infiniti modi, per rendere Don Marzio (interpretato da un pur bravo Pino Micol), una figura irresistibilmente e un po’ sinistramente comica, del quale il regista rimarca nostalgicamente l’origine di “gentiluomo napolitano”, si sarebbe potuto scegliere una chiave più decisa per estrarre dal personaggio e dal testo, scavando al di là della sua scorza, amari sapori e succhi ben più aspri, considerando anche la funzione di capro espiatorio che il personaggio assume nel finale, quando viene messo al bando dalla piccola comunità come unico responsabile delle meschinità e degli egoismi di cui tutti – con l’unica eccezione del caffettiere-filantropo Ridolfo – si sono pateticamente dibattuti. Tutti i nostri eroi – e citiamo gli altri generosi interpreti, Vittorio Viviani, Ruben Rigillo, Manuele Morgese, Carla Ferraro, Maria Angela Robustelli, Ezio Budini, Giulia Rupi, Alessandro Scaretti – non si spostano troppo da una tipologia collaudata e convenzionale.

“La Bottega del caffè”, adattamento Maurizio Scaparro e Ferdinando Ceriani, musiche Nicola Piovani, costumi Lorenzo Cutuli, luci Maurizio Fabretti. Produzione Teatro della Toscana. Al Teatro Mercadante di Napoli, e a Milano, al Piccolo teatro, dal 16 al 21/6, per Expo 2015

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