Città Nuova sta curando una rubrica sul tema “Ripensare il pensiero alla luce del paradigma della complessità per rigenerare la politica”. Lei è uno dei pochi filosofi ad elaborare una visione politica per il nuovo secolo in Una teoria della democrazia complessa. Governare nel XXI secolo (Castelvecchi 2022). Quale percorso intellettuale ha seguito? Quali sono i suoi rapporti culturali con altri pensatori della complessità come Edgar Morin, Mauro Ceruti ed altri? Ho iniziato la mia carriera intellettuale lavorando a una tesi su Habermas e attualmente sono membro del Consiglio scientifico dell’Istituto per la Ricerca Sociale, sede della famosa Scuola di Francoforte, della cui terza generazione mi considero un membro. Credo che la critica oggi sia quella di introdurre il punto di vista della complessità. Non riusciremo a capire il mondo in cui viviamo se non teniamo conto dell’interconnessione dei suoi elementi, dell’imprevedibilità, delle varie emergenze, della moltiplicazione dei fattori che intervengono nelle dinamiche sociali. Nel corso della mia vita ho studiato questi fattori di complessità settore per settore (il tempo, nel mio libro Il futuro e i suoi nemici), lo spazio (Un mondo di tutti e di nessuno), la conoscenza (La democrazia della conoscenza e La società dell’ignoranza), l’Europa (La democrazia in Europa) e che ho sintetizzato nella mia opera fondamentale (Una teoria della democrazia complessa), quasi tutti questi libri sono già stati tradotti in italiano. Ho appena terminato un nuovo libro che applica questa prospettiva della complessità alla tecnologia (Una teoria critica dell’intelligenza artificiale). Quello che cerco di portare alla teoria critica classica è il paradigma della complessità, che era assente nei suoi primi sviluppi. Apprezzo molto il lavoro di Morin (con cui ho avuto uno stretto rapporto per anni) e degli altri intellettuali che hanno lavorato in questo nuovo paradigma, come Ceruti e Zolo in Italia o coloro che si muovono nell’ambiente della Scuola di Santa Fe. Mancava una filosofia politica della complessità, ed è questo il mio contributo.
Come si spiega il ritardo dei sistemi politici, in particolare di quelli democratici, nel rinnovamento concettuale e di paradigma rispetto alle enormi sfide della policrisi in atto in questo cambiamento d’epoca?
La causa di questo ritardo risiede nella logica stessa della politica. A differenza di altri sottosistemi sociali, la politica impara male, in ritardo e quasi mai nella misura necessaria. È poco incentivata a mantenere un rapporto cognitivo con la realtà, preferendo darle ordini o dirle come deve essere. La politica, soprattutto in una società democratica, ha sviluppato una serie di strumenti che, più che normativi, sono strategie di conoscenza: c’è libertà di critica, ripartizione delle competenze, limitazione temporale nell’esercizio del potere, proprio perché siamo consapevoli di avere a che fare con questioni molto complesse e non possiamo risparmiare nessun elemento che ci aiuti a decidere correttamente. Stando così le cose, nella teoria politica attuale c’è un eccesso di moralizzazione che preferisce dividere il mondo in buoni e cattivi, in noi e loro, invece di migliorare le strategie per gestire questa complessità.
Lei elabora una teoria completa e concreta per rianimare la democrazia in crisi a causa di carenza di statisti, di classi dirigenti e cittadini impreparati, di guerre, cambiamento climatico, transizione digitale ed ecologica. Quale speranza possono avere i giovani in ansia, soprattutto in Europa, di fronte al futuro di un mondo complesso e plurale come “unica comunità di destino”?
Non ho mai creduto che l’età ci renda necessariamente più saggi, né che la gioventù debba essere più speranzosa. È vero che la realtà dell’interdipendenza o la persistenza delle crisi dovrebbero portarci a un’intelligenza cooperativa, ma possono anche favorire atteggiamenti opposti. Spesso si dice che le crisi sono opportunità, come se si dimenticasse quante istituzioni e civiltà non sono sopravvissute a crisi mal comprese e mal gestite. Il nostro futuro non è scritto e questa è l’unica cosa che mi rende ottimista. Non sono ottimista per virtù, ma per difetto, potrei dire. Dietro un pessimista c’è di solito qualcuno convinto che tutto andrà necessariamente peggio, mentre gli ottimisti tendono a essere più scettici e quindi più aperti alla possibilità di un mondo migliore. Non ho mai capito perché la professione intellettuale goda di maggior prestigio quanto più si è negativi sul nostro momento storico e sul suo futuro.
Per governare società complesse, lei propone di “democratizzare la democrazia”. Cosa intende per “democrazia intellegibile” e per “intelligenza della democrazia” in un sistema di governance planetaria?
Partiamo dalla constatazione che il mondo di oggi è molto difficile da capire e che molti comportamenti stupidi hanno a che fare con questa ignoranza, di fronte alla quale dovremmo essere un po’ più indulgenti. Coloro che dicono di sapere cosa si dovrebbe fare ci ingannano o ingannano sé stessi. Le visioni di cui abbiamo bisogno per il futuro non sono ancora disponibili. Abbiamo bisogno di nuovi concetti, nuove strategie, nuova comunicazione. L’unica cosa di cui possiamo essere certi è l’esaurimento delle vecchie ricette. Da qui la mia insistenza sul fatto che la politica dovrebbe rafforzare le sue strategie e le sue istituzioni che le consentono di imparare (anche a costo di affidarsi meno alle routine dell’autoconvincimento o dell’indottrinamento). Non abbiamo bisogno di società o leader fortemente convinti di essere nel giusto, ma interessati a imparare ciò che è giusto. A volte l’ho messa in questi termini: il nuovo Illuminismo deve essere quello dell’ignoranza, trasformando l’incertezza in cui viviamo in un’opportunità di apprendimento.
Lei è docente di Filosofia politica presso l’Università dei Paesi Baschi e titolare della cattedra di Artificial Intelligence and Democracy presso l’Istituto Europeo di Firenze. Come considera la proposta del presidente dei vescovi italiani, card. Zuppi, di una “Camaldoli europea”, cioè di un incontro storico in questo momento di grave crisi mondiale, tra studiosi, pensatori per elaborare una “visione nuova” in grado di trasformare l’Unione Europea in una vera unione politica in un mondo multipolare, con una identità plurale, con difesa e politica estera comune per garantire la pace?
Penso che sia un’ottima iniziativa, in linea con altre a cui ho potuto partecipare, sia in Europa che fuori, come il recente Future Summit promosso dalle Nazioni Unite. Noi uomini risolviamo le cose discutendo, soprattutto in momenti critici e molto complessi. E anche se il chiarimento delle idee non sostituirà la leadership pratica che ci manca, senza buone idee non andremo avanti. Forse una di queste idee è capire perché le cose sono difficili, perché c’è resistenza in un momento storico in cui è così evidente la necessità di un cambiamento.
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