Parolisi chattava con i trans. Anzi no

Diritto alla privacy o diritto di cronaca? Chi è imputato in un processo, anche per un crimine efferato, può preservare la propria dignità? Intervista al giornalista Rai Gianni Bianco
salvatore parolisi

La notizia, qualche tempo fa, ha destato molto clamore. Salvatore Parolisi chattava con i trans: dall’analisi del suo computer sembrava certo. Un dato importante per chi porta avanti le indagini sull'omicidio di Melania Rea, moglie fedele e mamma amorevole, uccisa ormai più di un anno fa nel bosco delle Casermette di Ripe di Civitella, in provincia di Teramo. Assassino ancora ignoto, unico indagato il marito Salvatore, appunto. Poi, dopo qualche giorno, la marcia indietro. La perizia della difesa del marito di Melania sembra sconfessare quanto era stato diffuso in precedenza. Peccato, però, che la smentita non abbia eguagliato la risonanza avuta dalla notizia.

Al di là della colpevolezza o dell’innocenza (sempre presunta fino alla sentenza definitiva) di Parolisi, resta una domanda: chi è imputato in un processo ha diritto alla privacy o tutto, indistintamente, può essere dato in pasto all’opinione pubblica? Vita privata, gusti sessuali, eventuali amanti: sono indubbiamente informazioni importanti per chi indaga su un presunto uxoricidio, ma è necessario che vengano conosciute da tutti?
 
Ogni cosa, nel circo mediatico, deve finire in tivù o sui giornali? La questione è importante, anche perché spesso non c’è riguardo neppure per le vittime di abusi o reati. Una ragazzina del Sud ha subìto, qualche mese fa, molestie dal nonno. Un sito Internet di informazione locale ha pubblicato nome e cognome dell’uomo, nonché l’indirizzo di casa. Difficile non risalire all’identità della vittima, in barba a ogni codice deontologico dei giornalisti.

Cambia scenario, un grande tg nazionale trasmette un servizio sulle rapine in villa, questa volta al Nord. Della coppia depredata e picchiata si dicono le generalità, i possedimenti, le abitudini intime. E la privacy? Esiste ancora un diritto alla dignità? Ne parliamo con Gianni Bianco, giornalista Rai, ogni giorno alle prese con fatti e misfatti della cronaca italiana.
 
I mass media tendono ad approfondire sempre di più le notizie che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica, come l’omicidio di Melania Rea. Esiste un confine tra le informazioni utili alle indagini e quelle di interesse pubblico?
«Il confine tra dovere di cronaca e diritto alla privacy dovrebbe essere sempre chiaro. E non mancano anche le norme deontologiche che spiegano fin dove ci si può spingere nel raccontare le vite altrui. Nella stragrande maggioranza dei casi queste norme vengono scrupolosamente seguite dagli operatori dell’informazione. Da qualche tempo però le regole sembrano improvvisamente saltare e le garanzie essere sospese, quando ci si trova di fronte a particolari fatti di cronaca. Cogne, Garlasco, Avetrana, Parolisi, Yara, come anni fa Novi Ligure. Insomma quei delitti eclatanti che tanto appassionano lettori e spettatori e che in breve diventano argomenti di dibattito prima al bar e poi in ore e ore di chiacchiere in tivù al pari del “tempo che fa” e della Juventus che vince. Nascono i partiti (colpevolisti o innocentisti), nei salotti televisivi irrompe la commedia dell’arte in cui ciascuno deve interpretare la propria parte prescindendo dalle convinzioni personali (c’è il comprensivo, l’avvocato del diavolo, la donna sensibile, il maschio aggressivo) e alla fine si parla di vittime certe e presunti carnefici, come se le sentenze fossero state già scritte. Soprattutto dimenticando di cosa si stia parlando. Di storie tragiche in cui c’è chi ancora piange la scomparsa di una persona cara, e chi prova a difendersi dall’accusa d’essere un mostro».

Da cosa dipende questa leggerezza? 
«Visto che tutti ne parlano e che gli ascolti tivù ne godono, sembra cadere ogni cautela. Tutti i dettagli, anche il meno essenziale, possono essere dati senza remore in pasto all’opinione pubblica, affamata di novità, continuando così a parlare di vittime e carnefici, con la stessa leggerezza con la quale un tempo si faceva per le avventure delle teste coronate e degli aspiranti principi. In questi casi, sia chi l’informazione la fa, che chi la riceve, sembra perdere il senso della realtà. Si scivola pericolosamente insieme in una dimensione parallela nella quale si può parlare liberamente di cose tanto drammatiche quasi senza esserne coinvolti emotivamente, con distacco rispetto a chi le ha vissute. E così mentre tanti giornalisti continuano a fare sempre i conti con la propria coscienza, alcuni, magari meno avveduti, rischiano di dimenticare il rispetto che sempre ci vuole nel trattare vicende tanto delicate, legittimati in questo anche dall’attteggiamento generale, il fatto che la cosa non sembra scandalizzare più nessuno».
 
 
Come preservare la dignità di una persona quando si scrive di cronaca, pur realizzando un servizio completo dal punto di vista professionale?
«Il segreto a mio parere è racchiuso dentro una parola che non compare nei codici deontologici, ma che è scritto nella coscienza di chi fa informazione con uno spirito di servizio. Parlo dell’empatia, la capacità di entrare in sintonia con chi è oggetto dell’informazione, di mettersi nei suoi panni, di comprendere il suo stato d’animo. È un esercizio sempre utile per provare a capire più profondamente cosa senta chi ci sta di fronte, assassino o santo che sia. Questo viaggio verso l’altro non confligge con il dovere di informare, senza censure, dicendo fino in fondo la verità. Non presuppone uno sconto sulle responsabilità di chi è oggetto di indagine e magari si è macchiato di colpe molto gravi. Ma provare a spostare da sé il baricentro della notizia, sforzarsi di intuire l’uomo nascosto dietro l’imputato, può aiutare a volte a rispettarlo nella sua umanità, riferendo della sua vita solo ciò che è necessario e buttando via quanto serve solo a distruggerne inutilmente l’immagine».
 
Il giornalista è libero di agire come crede o è vincolato dalla linea editoriale e dai propri superiori?
«Se il giornalista è un "freelance" (uno che lavora da libero professionista e vende i suoi servizi a scatola chiusa al miglior offerente) può confezionare il proprio pezzo come meglio crede, senza ascoltare indicazioni che gli vengano dall’alto. Se il giornalista è un dipendente deve adeguarsi a quanto gli viene chiesto dal suo direttore, che decide quale sia la linea editoriale del giornale e come alcuni fatti debbano essere trattati. Questo non significa immaginare un Grande fratello o un oscuro burattinaio che manovra come marionette i cronisti. Intanto perché anche il direttore è un giornalista con una coscienza a cui dover rendere conto, e poi perché il cronista incaricato del pezzo, soprattutto se autorevole e stimato, concorda con i suoi superiori la linea del servizio, offrendo la sua sensibilità e proponendo il suo punto di vista. Se poi è inviato sul posto in cui il fatto è avvenuto, può fornire l’elemento che al direttore manca: l’esperienza sul campo, l’aver visto e sentito con i propri occhi quello di cui si parla sulle agenzie di stampa. Posizione privilegiata che può pesare molto sulla confezione definitiva del servizio. Condizionamenti ce ne sono, i gruppi di potere fanno da sempre il loro lavoro. Ma anche quando un pezzo è stato imposto, al giornalista bravo restano sempre dei margini anche minimi, per provare a inserire elementi che bilancino eventuali indicazioni ritenute troppo pressanti e non appieno condivise».
 
Hanno ancora un senso il codice deontologico e le carte dei diritti varate dall'ordine dei giornalisti? Come può difendersi un telespettatore (o un lettore)?
«Codici e carte dei diritti hanno sempre un senso. Anche quando c’è chi pensa che nessuno li tenga in conto e li applichi. Il fatto che ci siano ricorda sempre a tutti gli operatori dell’informazione quello che si deve essere, uomini chiamati a fornire informazioni senza passare sopra le persone. Quando però ciò non accade, lettori e telespettatori possono farsi sentire. Un tempo si invitava a inviare lettere scritte, cosa piuttosto farraginosa che pochi facevano se non a seguito di campagne di sensibilizzazione su larga scala. Oggi è tutto più facile. Ci sono gli indirizzi mail, le testate hanno tutte una pagina Facebook e sono presenti su Twitter, i servizi girano su YouTube un secondo dopo la messa in onda. Basta un secondo e un giudizio negativo arriva direttamente nelle redazioni. Non ci si può più nascondere. Per di più, rispetto al passato, quando quella critica restava chiusa in busta nello spazio ristretto della stanza del direttore, oggi invece diventa in un attimo di dominio pubblico, condiviso da altri utenti, inoltrato ad altri spettatori e capace in pochi minuti di diventare protesta (o apprezzamento) di popolo. E non è vero che chi è fatto oggetto di critiche (o complimenti) di questo tipo scrolli le spalle. Se è un professionista in gamba prenderà in seria considerazione quanto gli viene suggerito, soprattutto se questo gli verrà espresso in maniera costruttiva».

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