L’annuncio delle prossime, attesissime riaperture sta facendo molto discutere. Balza all’occhio che rispetto ad altri Paesi, come il Regno Unito, dove è stata definita una roadmap per il ritorno graduale alla normalità, l’Italia non abbia una situazione epidemiologica favorevole.
Un’occhiata alle curve di prevalenza (numero di casi e ricoveri attuali) e di incidenza (numero di nuovi malati quotidiani) basta a far capire che questa decisione non è motivata da un drastico crollo dei numeri del contagio. La mitigazione delle misure restrittive trae senz’altro motivazione nel crescente costo di benessere economico, relazionale, di perdita di salute e significato che sta pagando il Paese, soprattutto nelle fasce più fragili e a rischio marginalità.

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Viviamo una condizione che impone di trovare un equilibrio, fra sicurezza e normalità, che restituisca ossigeno alla vita sociale senza mettere in ginocchio il sistema sanitario e mettere a rischio un numero inaccettabile di vite umane.
Tale approccio, in termini tecnici, prende il nome di strategia di contenimento di una pandemia: un modo di affrontare la situazione diverso dalla “hard strategy”, che punta all’esaurimento dei casi e al successivo spegnimento immediato, con un controllo rigido, di ogni nuovo focolaio (modelli che sono stati adottati in Cina e in Nuova Zelanda).
Ma cosa possiamo aspettarci e, soprattutto, che contributo possiamo dare perché questa tattica di “tregua armata” possa dare i migliori risultati?
Numeri alla mano, l’andamento dell’epidemia in Italia è attualmente influenzata quasi soltanto dalle misure di contenimento: come queste si allentano, l’incidenza risale e aumentano casi e ricoveri. I numeri dell’immunizzazione della popolazione (poco più di 4 milioni di persone completamente vaccinate) sono ancora lontanissimi dal 60-70% della popolazione necessario per ottenere un effetto rilevante sulla circolazione del virus.

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L’attuale trend di casi e ricoveri ci porta ad immaginare una sorta di altalena di numeri, che andranno oscillando intorno a un equilibrio che potrebbe assestarsi sui parametri di questo periodo: il che, non va dimenticato, significa che rimanendo così le cose, il Covid continuerà a portarsi via dalle 300 alle 500 vite al giorno per un periodo forse molto lungo, tenendo impegnati gli ospedali e riducendo la capacità del nostro sistema sanitario di assicurare salute, anche in termini di prevenzione e riabilitazione.

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Nelle prossime settimane sarà quindi cruciale il comportamento dei singoli, il rispetto delle regole e l’efficacia dei controlli: tutti aspetti sui quali, inutile nasconderselo, la nostra società civile non ha dato una prova particolarmente brillante anche rispetto ad altri contesti nazionali.
Molti sperano nell’effetto estate, che lo scorso anno contribuì ad un crollo verticale dei contagi durante i mesi fra giugno e agosto; ma anche se il clima caldo e asciutto dell’estate hanno un ruolo drastico sulla riduzione della capacità di sopravvivenza del virus, tutte le “nuove versioni” del Sars-Cov-2 sono capaci di infettare con un numero minore di particelle virali, e questo potrebbe rendere la bella stagione molto meno decisiva di quanto è stata in passato.
Rimane, certo, la carta della vaccinazione di massa.
Per quanto non con i ritmi sperati all’inizio dell’inverno, la campagna sta proseguendo ed è verosimile che prima del prossimo inverno il virus si trovi davanti una popolazione abbastanza protetta da rendergli la vita difficile. Questo dipende da vari fattori.
Anzitutto quanto si otterrà dalla protezione delle categorie più fragili, su cui in Italia si è investito fin da subito (e anche con le recenti correzioni della rotta imposte dal governo) dovrebbe portare a una riduzione importante della pressione sui servizi sanitari. Questo perché tutti i vaccini in uso, compreso il tanto dibattuto prodotto di Astrazeneca, hanno dimostrato un’efficacia pressoché completa nel prevenire le forme gravi e complicate di malattia (quindi ospedalizzazioni e decessi).
Alla luce di ciò, appare poco lungimirante l’atteggiamento ormai quasi universale dei Paesi EU verso i vaccini a vettore virale: anche ammesso che il loro rischio di eventi avversi sia tanto maggiore di quelli a vettore lipidico (di Pfizer e Moderna), il loro uso massivo non può che portare ad un numero di complicazioni e decessi immensamente inferiore a quelli che eviterebbe.
Vale la pena di ricordare anche come tassi di rischiosità dell’ordine di un evento su un milione sono quotidianamente accettati, in maniera del tutto indifferente, in merito a prodotti farmacologici e vaccinali di uso comunissimo (vedi l’aspirina, sempre citata in questi esempi), per non parlare di prodotti voluttuari come tabacco o alcolici, o dei mezzi di trasporto.
Certo, la presenza di vaccini ancora più sicuri e privi di questi rischi anche remoti, ci impone di valutare le priorità, anche di produzione del farmaco, e scegliere i gruppi che hanno maggior rischio di essere sottoposti al vaccino; ma questo va fatto tenendo presente che il virus non sta certo fermo ad aspettare che cambiamo strategia produttiva.
Infine c’è il rischio, a livello globale, che le popolazioni con minor peso sul mercato globale si vedano costrette non solo a scartare i prodotti più desiderabili, accettando il rischio comunque ancora del tutto ragionevole dei vaccini a vettore virale. Ma anche a ripiegare su vaccini poco efficaci e poco sicuri, o a rinunciare a offrire la vaccinazione ad ampie fasce della popolazione.
Quanto sta succedendo in questi giorni in Cile e in Brasile sono esempi che ci interrogano, non solo per gli aspetti etici e per la drammatica evidenza delle sofferenze di questi popoli: lasciando correre l’epidemia in quei Paesi è verosimile lo sviluppo di varianti, che potrebbero precipitarci tutti, a livello globale, in un incubo davvero apocalittico.
Come al solito, tutto dipende ancora e sempre dalle nostre scelte collettive.
Oscillando fra diritto alla sicurezza assoluta di pochi e spregiudicata indifferenza per le sofferenze di molti, l’umanità non uscirà dalla pandemia, ma rischierà di soccombere al virus di un egoismo planetario sempre più virulento.