Oslo piange ma reagisce

La gente è in fila per donare il sangue, le chiese sono tutte aperte per preghiere di commemorazione. La paura non piega la democrazia
Oslo

Le strade della capitale sono vuote, la gente è sotto shock: Oslo è ferita dalla tragedia che sabato ha contato 93 vittime per l’esplosione di una bomba nei pressi del palazzo del Governo e per i colpi violenti sparati da Anders Behring Breivik a giovani riuniti per un campo estivo del partito laburista. Ma pur in lacrime la città e soprattutto l’intera nazione non si arrendono.

 

C’è fila davanti agli ospedali per donare il sangue, soprattutto per i gruppi più rari. Fuori dal duomo luterano sono centinaia di migliaia le candele che ricordano le vittime. Tutti parlano dell’eroismo dei campeggiatori di fronte all’isola di Utoya che appena intuita la tragedia si sono precipitati in barca per salvare i giovani, che lì avevano organizzato la loro convention.

 

Domenica le chiese luterane e cattoliche sono rimaste aperte per il requiem, una preghiera non consona alla tradizione luterana, ma che è stata invece frequentatissima. Tanti sono i giovani che chiedono un colloquio con un sacerdote o che si fermano in chiesa ad accendere le candele o a portare fiori. In piccoli gruppi ci si ritrova nelle case per ricordare. Lo hanno fatto anche i membri del movimento dei focolari di Oslo, sabato sera.

 

«Certo la gente è sotto shock – ci dice Katarina Miksits da 15 anni ad Oslo -. Siamo increduli e nessuno poteva immaginare una situazione simile. Qui neppure i ministri hanno la scorta, la nostra è una società tranquilla e non vorremmo proprio cambiare».

 

Anche il primo ministro Jens Stoltenberg insiste su questo tasto: «La nostra è una democrazia aperta e tale continuerà a rimanere. Non possiamo lasciarci spaventare» e annuncia che il prossimo anno il congresso del suo partito si terrà proprio sull’isola di Utoya. Le sue parole, a due giorni dalla strage, continuano a tranquillizzare il popolo e a riportarlo alle sue radici di tolleranza e apertura.

 

Un giovane intelligente come Anders Behring Breivik, «perché lo è – continua Katarina per poter progettare un piano simile, anche se viene riconosciuto malato», che sia arrivato a questo, gela il Paese e interroga sulla formazione e sulle relazioni sociali. Sconvolge che nessuno si sia accorto dei suoi malesseri e che solo la sua freddezza nei rapporti umani facesse scalpore. All’esterno ben poco si sapeva di questo giovane che amava i videogames violenti, che si nutriva di ideologie falsate e nel contempo sembrava un abile professionista. Sconvolge questa apparente normalità, che celava la follia. Sul suo fanatismo religioso non ci sono state prese di posizione ufficiali. Ovunque risuona come una sentenza, l’affermazione «non stava bene, era malato».

 

Si discute tra la gente se opportune misure di sicurezza avrebbero potuto evitare o limitare il danno, ma per gran parte degli svedesi la libertà è un valore ben più grande della sicurezza e una democrazia aperta continua ad essere preferita ad una, apparentemente, più protetta. E mentre idealità, gestione politica, vita sociale vengono messi in discussione per trovare una via ancora migliore, «ci si scopre più solidali, impreparati sì, come sarebbe accaduto dappertutto – conclude  Katarina -, ma siamo più popolo, ci siamo scoperti veramente uniti, anche al di là del credo religioso o delle scelte partitiche e su questo non vogliamo tornare indietro. Vogliamo credere che l’amore è più forte».

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