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Oltre il carcere, per una giustizia riparativa

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

«Entrare in un carcere  è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista per fare finta che non esistano. Significa rimuoverle dall’inconscio sociale» Il mondo delle carceri fa paura e inquieta perché è una parte del volto triste e sfigurato della società a cui apparteniamo. Ma davvero sono solo le persone detenute ad avere sbagliato? La proposta di una giustizia riparativa nell’intervista a padre Francesco Occhetta sj

Carcere Regina Coeli, Foto Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse

Capovolgere la giustizia per renderla effettiva. Francesco Occhetta, padre gesuita. Coordina dal 2009 il cammino di formazione alla politica “Connessioni” e insegna alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi. Tra i suoi impegni dedica un serio e duraturo impegno al mondo delle carceri promuovendo una visione integrale della persona nel segno della giustizia riparativa.

Continua, in tal modo, il percorso avviato da altri due gesuiti, Alfredo e Alfonso Bachelet, fratelli di Vittorio, grande giurista e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ucciso da un commando delle brigate rosse nel 1980 in pieno giorno dentro la città universitaria di Roma La Sapienza. Il gesto pubblico del perdono degli assassini del padre dichiarato dal figlio Giovanni, «senza togliere nulla alla giustizia che deve trionfare», è stato come un detonatore della coscienza per alcuni terroristi che hanno intrapreso un cammino di ravvedimento cercando e ricevendo la disponibilità di un rapporto con i familiari delle loro vittime.

La frequentazione del carcere ha permesso a padre Occhetta di conoscere un tipo di umanità diversa dagli autori dei grandi crimini di mafia e terrorismo facendo maturare l’esigenza di “capovolgere la giustizia” proprio per renderla effettiva.
«Entrare in un carcere – afferma – è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista per fare finta che non esistano. Significa rimuoverle dall’inconscio sociale».
La nostra intervista parte da questo punto di vista nascosto.

Chi sta in carcere oggi?
Una percentuale minima è fatta da grandi criminali. Migliaia di altri detenuti sono in carcere per reati minori. Ne ho incontrato uno che stava scontando due anni per un furto di bicicletta. Circa 18.000 detenuti ruotano intorno alla tossicodipendenza.
È a tutti noto, quindi, che la popolazione carceraria è di sua natura poco rappresentativa della società: il 5% dei detenuti sono analfabeti, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti sono laureati; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quelli fuori. Da qui la domanda che dovremmo farci: Siamo sicuri che la legge è uguale per tutti?

No, purtroppo. Ma allora che fare?
Innanzitutto tener conto che nei 195 istituti penitenziari italiani, a metà del 2018 erano presenti circa 58.000 detenuti (di cui circa 9.700 in attesa di giudizio), a fronte di una capienza regolamentare di 50.069. Un detenuto costa allo Stato circa 200 euro al giorno, ma l’investimento per la rieducazione è minimo, si spendono solo 95 centesimi. Al contrario invece i dati indicano che si recupera meglio e di più fuori dal carcere: circa 29.000 detenuti scontano la pena non in carcere, 12.400 sono in affidamento ai servizi sociali. L’alternativa al carcere funziona.

Non per tutti pero…
Certo, lo ripeto, non per i detenuti di grandi reati, che sono circa 10mila, ma per i rimanenti 48mila, molti dei quali espiano pene di lieve entità.

Nel suo libro “Giustizia capovolta” espone la necessità di una giustizia riparativa da affiancare al modello vigente di «giustizia retributiva», basato sui princìpi della certezza della pena e della proporzionalità del danno. In cosa consiste?
Parlo di un «prodotto culturale» che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. Centrale per questo modello è l’incontro della vittima con il reo, che è chiamato a ripristinare l’oggetto o la relazione che ha rotto. Servono certamente mediatori penali e civili e una società che non consideri le carceri come delle discariche sociali, per utilizzare l’immagine di Zigmunt Bauman. Un modello che non fa sconti sulla pena, ma umanizza la sua espiazione, chiede di riconoscere la verità, condanna il male, restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime

Non è una proposta troppo esigente?
E, infatti, non parliamo di forme di indulgenza o di falso buonismo, ma di strumenti capaci di migliorare l’esecuzione penale e rendere la pena conforme alle finalità rieducative previste dalla Costituzione. Un modello di giustizia adulto, molto forte e duro. Entrare nella profondità del dolore delle parti è scendere in uno spazio sacro molto complesso. Come scrivo nel mio libro, ho visto persone “umanamente morte” ritornare in vita grazie alla forza dell’incontro e della ricostruzione della relazione attraverso la figura del mediatore. In molte parti del mondo il modello funziona, in Italia è applicato nel diritto penale minorile e vissuto in tante singole esperienze, come quella di Agnese Moro, Lina Evangelisti, Bruno Vallefuoco e altre vittime che hanno avuto la forza di cambiare la vita ai loro rei.

Si parla di umanizzazione secondo la migliore cultura del nostro diritto, ma anche di personalizzare la pena. Che significa?
Rispondo con una domanda: ha un senso lasciare in carcere giovani prostitute africane vittime della tratta, oppure persone senza dimora per aver rubato un cappotto o dormito in un’auto per evitare di passare la notte al freddo? Qualsiasi tentativo di riforma deve partire dalla considerazione degli ultimi e dei più indifesi.

A cosa conduce il modello repressivo?
Ad aggravare la situazione provocando altro dolore e violenza. Quando gli Usa negli anni Novanta buttarono via le chiavi delle loro carceri i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni. I posti liberi di coloro che delinquevano vennero occupati da altri.
Esistono riferimenti condivisi sulla giustizia riparativa?
Credo che sia fondamentale la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d’Europa, che definisce la giustizia riparativa come «il procedimento in cui la vittima e il reo, e, se è opportuno, ogni altro individuo o membro della comunità lesi da un reato, partecipano assieme attivamente e consensualmente alla soluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un terzo indipendente (il mediatore)». Raccomandazione che è all’origine della Direttiva Ue n. 29 del 2012.

Cosa occorre in Italia?
Investire sulla figura del mediatore come evidenziato nei lavori del 2017 sugli Stati generali dell’Esecuzione penale. Sono importanti le competenze, le scuole che si formeranno intorno al tema e l’accompagnamento di training. Occorre scegliere persone giuridicamente e umanamente solidi. Ma è chiaro che occorre prima di tutto una scelta culturale di sistema. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa.

Prima ancora di riparare non bisogna prevenire le cause remote che producono i reati?
Certo! È proprio a partire da una visione integrale che sono assolutamente d’accordo con un grande esperto di diritto penale, il professor Luciano Eusebi, sulla necessità di una prevenzione primaria molto concreta come , ad esempio, perseguire i paradisi fiscali, regolare gli appalti, contrastare le coltivazioni della droga, rinforzare l’etica della sessualità per contrastare gli abusi ecc.

Di fatto, però, non cresce invece nella nostra società una grande domanda di giustizia che sfocia nel giustizialismo?
Purtroppo è così. Papa Francesco, rivolgendosi il 23 ottobre 2014 all’associazione internazionale di diritto penale, condannando il populismo penale ha chiesto alla cultura della giustizia di «non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c’è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».
Evidentemente esiste un riferimento antropologico di questa visione…
Le varie definizioni di giustizia nella storia sono condizionate da una domanda fondamentale: chi è l’altro per me? La giustizia riparativa affonda le sue radici nella Bibbia tra la mišpat (la giustizia classica) e il rîb (lite bilaterale), con cui iniziano i libri di Isaia, Osea e Geremia e che la Scrittura presenta come alternativa al sistema penale e alle sue sanzioni. La dinamica è triplice: l’accusa, la risposta dell’accusato e il perdono che salva la persona ed inizia la riabilitazione/riparazione.

Quale è il fondamento di tale concezione della giustizia?
Il fondamento rimanda sempre a una relazione da custodire o da guarire come ci ricorda il termine ebraico, sedaqah, “solidarietà con la comunità”. Considerare l’altro un fratello prima che un nemico è ciò che ci costituisce uomini morali e ci permette di costruire un sistema penale che tenga in conto una «riabilitazione umana» della persona colpevole. La responsabilità sociale di soddisfare tale bisogno è la pietra angolare della moralità sociale, e l’accettazione di tale responsabilità il principio che ci permette di diventare una persona morale.

Il dibattito attuale sembra lontano da questa visione. Cosa sta accadendo?
Il carcere rimane tra i temi sociali e politici più scottanti nelle culture democratiche dove ci si divide tra giustizialisti e permissivisti. I primi considerano le carceri come delle discariche, cioè realtà esterne alle città, in cui la punizione deve prevalere sul recupero. I secondi, invece, ritengono — correndo il rischio di non distinguere il grado di pericolosità del colpevole o la sua disponibilità a pentirsi — che le carceri facciano più male che bene. Tra questi, non mancano le posizioni di magistrati «pentiti» — come Gherardo Colombo —, i quali considerano i penitenziari inefficaci, se non addirittura dannosi per la società, perché, «invece di aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi».

Come si possono definire e distinguere i vari modelli di giustizia?
Il modello vigente della «giustizia retributiva», — al quale la legge garantisce due fondamentali princìpi: la certezza della pena e la sua proporzionalità alla gravità del danno causato — risponde a tre interrogativi: quale legge è stata infranta; cosa è stato infranto; quale punizione dare.
Il modello di «giustizia rieducativa», in cui chi commette reati deve essere rieducato (psicologicamente) per dimostrare il cambiamento della propria personalità e dei propri comportamenti.
E, infine, la giustizia riparativa che integra i modelli classici di giustizia e pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima. La pena viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito?
Quali sono i passaggi fondamentali di questo modello?
Sono 5 e vanno compiuti per intero.
1. Il riconoscimento del reo della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società.
2. L’incontro con la vittima.
3. L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore.
4. L’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore.
5. L’individuazione della riparazione che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione.
È un processo esigente ma necessario perché come afferma papa Francesco «sarebbe un errore identificare la riparazione solo con il castigo, confondere la giustizia con la vendetta, il che contribuirebbe solo ad accrescere la violenza, pur se istituzionalizzata».

Esiste un’immagine di riferimento nel lavoro che porta avanti in questo campo?
Mi ha colpito il racconto di un gesuita austriaco, E. Wiesnet, molto attivo nel mondo delle carceri, a proposito di Hans K., un ragazzo di 19 anni che quando è ritornato dal carcere minorile, dopo tre anni di detenzione, il suo villaggio di origine gli ha negato, come «furfante» e «galeotto», ogni riconciliazione. Hans si è impiccato per disperazione dopo sei settimane. Nella sua lettera di addio ha lasciato scritto: «Perché gli uomini non perdonano mai!».
Una civiltà questo non può permetterlo, l’alternativa umana che condanna il male e ridona dignità alla vittima e al reo può solo passare per la riparazione.

(Estratto dal Dossier “Carcerati” di Città Nuova)

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