Quando Ermanno Olmi visitò Loppiano

Il grande regista è scomparso. Lo ricordiamo riproponendo la cronaca della sua visita, qualche anno fa, nella cittadella toscana dei Focolari. Una giornata particolare trascorsa sulle colline toscane. Dove aspettava di andare da 47 anni.  
Ermanno Olmi
Alto, asciutto, nonostante il passo insicuro, Olmi ha lo sguardo di chi molto ha vissuto e osservato. Più che dai libri, ha imparato dalla vita, dice lui. Per questo, fin da ragazzo, la cultura accademica non gli è stata congeniale. «Un libro che non diventa vita non serve. Per questo li ho inchiodati – sorride – nel mio film Centochiodi». Un film splendido, non sempre capito, su un Cristo di oggi che accoglie i semplici e gli umili.

Lui non si fa chiamare “maestro”, è Ermanno per tutti. Non si considera un guru, come tanti colleghi, ma un “artigiano”.

Ermanno rimane con l’incanto negli occhi, mentre osserva, incurante dell’afa, le case, le persone, la natura.«È da 47 anni che sento parlare di Loppiano», confida a tavola al piccolo gruppo che l’accoglie. Gliene ha parlato nel 1963 Gino Lubich, fratello di Chiara. Un’amicizia solida tra i due. Ed Olmi snocciola con il suo fare faceto episodi inediti sulla famiglia Lubich…

«Credevo che Loppiano – racconta – fosse un borgo contadino di persone che formavano una famiglia non convenzionale, ma secondo progetti d’amore, creando una comunità. Venendo, mi ha subito stupito il paesaggio, che è la prima casa dell’uomo. Poi, ho visto la chiesa, una architettura che esprime molto bene la relazione fra la costruzione dell’uomo e il luogo, con quel campanile che pare una torre di avvistamento. Non dei nemici, ma degli amici».

 Oltre alla natura, sono le persone a stupire Ermanno nelle sue visite ai luoghi della “città”. «Sono come degli argonauti che mantengono la rotta tracciata da Chiara – commenta –. Per quanto ho letto di suo, sono due le pietre miliari: l’idea che ogni cosa nasce se c’è un motivo d’amore e poi la famiglia come luogo in cui esso si realizza. Tutti infatti sono disposti a sottoscrivere il concetto di amore, ma diverso è amare. Io credo all’amore che non cerca il compenso, soprattutto all’amore per i nemici, cioè gli uomini che non conoscono ancora il sentimento della pace. La grande idea di Cristo è infatti quella del perdono, primo atto sublime di pace».

Olmi è una miniera di ricordi, impressioni, riflessioni. Tutto viene detto in modo pacato, tra mille attenzioni alla moglie Loredana, agli ospiti, senza far pesare il suo corpo fragile che ha bisogno del sostegno altrui.

Quando poi, più tardi, si siede con il preside, Piero Coda, e alcuni studenti dell’Istituto universitario Sofia all’interno dell’edificio – ma lui preferirebbe, potendo, stare all’aria aperta o conversare in cucina, familiarmente –, ha uno sguardo d’amore per ciascuno di loro. Olmi infatti da anni dirige “Ipotesi cinema”, un laboratorio di cinema per i giovani a Bologna, da dove sono usciti registi come Campiotti o Zaccaro. Si informa dei loro studi, parla di un cinema, il suo, dove il senso della fraternità degli uomini fra loro e la natura è sempre presente. «Noi siamo in qualche modo i rappresentanti di Dio, consapevoli che essere uomo vuol dire poter giudicare ciò che è bene e ciò che è male. Questa responsabilità la possiamo spendere nell’egoismo, oppure scoprendo la felicità che la vita in sé stessa contiene. Penso che nella natura ci sono le nostre origini, dobbiamo amarla, senza offendere il grembo materno in cui l’uomo ha potuto vivere in questo giardino dell’Eden che è la terra».

Come mai però tanto disorientamento nella società attuale? «Non c’è solo nel cinema, ma pervade tutte le realtà, anche lo sport. Noi, credo, abbiamo disatteso più che le regole scritte, quelle morali. Queste ultime le puoi far tacere per un po’, ma poi ritornano. Dobbiamo tornare alle regole morali. Senza questo tutto è vano, e invano», conclude con semplicità, tra gli sguardi lucidi degli studenti, che lo invitano a recarsi da loro quando vorrà. «In primavera», promette lui.

È sera, la visita continua, ancora momenti con altri giovani, con coppie, il Polo Lionello… «Ma voi soffrite, qui, come ve la cavate col dolore?», chiede a sorpresa, lui che ha conosciuto la sofferenza. Ascolta alcune testimonianze di famiglie o di giovani che hanno incontrato la durezza della vita. Non finirebbe mai di ascoltare. «Le persone come Chiara – commenta – nel momento in cui si allontanano dal mondo (parla così della morte, ndr) lasciano una eredità. La domanda è: come verrà amministrata? Ma a questa domanda dovete rispondere voi». «Ero venuto con un certo timore. Ma no, Loppiano non mi ha deluso», saluta. Tornerà ancora, e non per un weekend.

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