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Novità contraddittorie dal fronte ucraino

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

Lo tsunami Trump arriva anche nel Donbass. Ma i suoi venti non sono univoci e la prospettiva di una fine rapida del conflitto non appare più realista

Ansa EPA/SERGEY DOLZHENKO

Aveva promesso di fermare la guerra in Ucraina in 24 ore, forte della sua consolidata amicizia con Vladimir Putin. Pensava, con tutta probabilità, che lo zar avrebbe accettato di buon grado la fine delle ostilità in cambio di una concessione territoriale parziale, cioè di Crimea e di un pezzo del Donbass. Probabilmente Trump ha sottovalutato le ragioni più profonde delle convinzioni russe sull’accerchiamento del suo territorio, della missione teologicamente argomentata della grandeur della Russia, della difficoltà per la Russia di riconvertire in civile un’economia ormai funzionante in modalità bellica. Fatto sta che l’amico russo non ha abboccato all’amo del tycoon e le tempistiche della risoluzione del conflitto nel Donbass si allungano fin dove non si sa.

Marco Rubio, neo segretario di Stato Usa, ha in mano il complicato dossier ucraino: deve fare presto per accontentare il suo datore di lavoro che scalpita per portare a casa risultati tangibili nei primi cento giorni del suo secondo mandato; ma da buon diplomatico sa bene che i miracoli sono rari in politica internazionale. Così, come per la guerra di Gaza, cerca di mutare le narrative anche sulla guerra d’Ucraina, raddoppiando o quasi le cifre delle vittime della guerra, da poco meno di un milione a quasi due milioni di soldati e civili uccisi, con la palma del primato funereo attribuito d’ufficio ai russi, e attribuendo all’amministrazione Biden ogni sorta di errori strategici e tattici. Senza dimenticare che Trump e gli uomini e le donne del suo governo stanno definendo la guerra d’Ucraina, e quella di Gaza, come stupide guerre. Stupide è un eufemismo, rispetto al termine usato realmente, che la dice lunga sull’esprit de finesse di The Donald. In più, l’amministrazione Trump fa circolare notizie su una presunta forza di interposizione internazionale di 200 mila uomini, che verrebbe pagata quasi interamente dagli europei, per costringerli ad aumentare le spese di bilancio attribuite alla difesa fino al 5% – oggi sono poco sotto il 2 –, creando nuovi buchi nei bilanci degli Stati europei a tutto vantaggio del sistema produttivo statunitense.

Sul campo si continua a morire: circolano stime terrificanti, ad esempio, sulla morte del 40% dei soldati nordcoreani inviati nella zona di Kursk, mentre nel Donbass centrale Mosca starebbe avanzando. Ma appare anche evidente come gli approvvigionamenti di armi convenzionali comincino a scarseggiare da entrambe le parti. E appare sempre più evidente come l’economia russa sia in difficoltà, una volta smascherato il trucco di far ricadere il peso del credito di guerra sul settore privato, costretto a prestar soldi allo Stato da leggi elaborate in fretta e furia dalla Duma nel febbraio 2022, data di inizio del secondo conflitto ucraino nel Donbass.

Vladimir Putin è pure in ambasce per l’inatteso tracollo in Siria dell’alleato Assad, in Libano degli Hezbollah e in Iran del regime degli ayatollah. Il danno di immagine per questi rovesci militari, che vanno di pari passo con la crisi dei rapporti col sultano Erdogan, è la caduta di un’importante tassello della sua strategia. E Trump sembra approfittare per minacciare sanzioni ed embarghi: ma cosa avrebbe fatto l’amministrazione Biden da tre anni in qua? Cos’altro si potrebbe inventare per far pressione economica sulla Russia che pare ormai essersi venduta all’alleato cinese? Tra l’altro, qui Trump si scontra con una non adeguata conoscenza storica e culturale delle ragioni dell’orgoglio russo.

Che succederà ora? Il ministro Crosetto ha dato voce a quello che pensano quasi tutti i Paesi europei, annunciando l’invio dell’ennesimo contingente di armi italiane all’Ucraina di Zelensky, presidente che appare ormai stanco: «Speriamo che sia l’ultimo invio di armi», ha detto il titolare della difesa. L’Europa sembra contare sempre di meno, frammentata com’è, alle prese con una tendenza di destra estrema che non esclude la salita al potere in Paesi strategicamente decisivi, tendenza peraltro sostenuta energicamente dal duo Trump-Musk, mentre una Ursula von der Leyen ammalata non sembra più in grado di dettare l’agenda, impegnata com’è a rincorrere con i suoi comunicati le dichiarazioni che vengono da Oriente e da Occidente.

Le prossime mosse dei presidenti Usa e russo paiono ormai una partita di scacchi, non si sa chi abbia in serbo la mossa dello scacco matto. Preoccupa, infine, la tendenza mediatica a concentrare l’attenzione sulle roboanti dichiarazioni politiche, dimenticando il compito fondamentale proprio dell’informazione, cioè quello di dar voce a chi non ha voce: chi scrive più delle popolazioni in guerra? E chi della carne da macello delle truppe che continuano a morire nel profondo Donbass?

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