Nessun pessimismo, ma nuove virtù

A colloquio con l'economista Luigino Bruni per parlare del suo nuovo libro per Città nuova, ma anche di crisi economica e Facebook
Luigino Bruni

La colpa si sa, soprattutto nel momento in cui viene addebitata, pende sempre e solo da una parte ed in genere non accetta attenuanti. È accaduto al nostro sistema economico che a passare dal balsamo di tutti i problemi a fonte di sfiducia totale ha impiegato poco più di tre anni, da quando cioè si è iniziato a parlare di bolla finanziaria. Ma questo genere di considerazioni attengono alle problematiche viste a caldo, non allo sgurado lungimirante che guarda la totalità dei cambiamenti in atto. Non appartengono ad esempio a Luigino Bruni, docente di economia politica all’Università Bicocca di Milano, che più volte nei suoi scritti ha parlato di nuove virtù del mercato e di era dei beni comuni, diventati oggi un libro, in vendita nelle librerie da marzo, dal titolo Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni , edito da Città Nuova. Un volume che ci svela la nuova dimensione della vita economica e civile a cui ci stiamo avviando.
 
Già nel titolo parli di nuove virtù del mercato. Quali sono?
«Innanzitutto bisogna liberarsi dall’idea che tutte le attività sono virtuose tranne l’economia. Questo filone di pensiero, il pessimismo antropologico secondo cui l’uomo agisce solo per il proprio interesse, lo farei risalire ad Hobbes. Nel nostro sistema economico si sono sempre considerati elementi positivi la competenza, la dedizione o la competitività. Il bene comune (di tutti) era uno di quei fattori che si accresceva se l’imprenditore investiva bene queste virtù.
Ma occorre fare un passo in avanti. Queste virtù hanno funzionato in un mondo semplice, governato dal prodotto semplice (scarpe, automobili), quello che definiremmo il mondo precedente alla grande globalizzazione. Ma quando è iniziata l’era dei beni comuni (acqua, energia, ambiente…) tutto questo non è più bastato. È necessario dunque, che siano altre le virtù a prendere piede nel mercato: la fraternità civile, la gratuità, la felicità pubblica, la speranza, la mutua assistenza e l’umiltà. Sono queste le nuove virtù a cui faccio riferimento».
 
Il lavoro oggi è tra le questione più urgenti. Come si pone all’interno di questo quadro?
«Innanzitutto non bisogna stare al palo e aspettare che arrivi. Il lavoro oggi vive nuovi percorsi di opportunità. Si richiede da più parti che si sviluppino creatività e intraprendenza, passando per un atteggiamento “dipendente” ad uno sempre più imprenditoriale. Sta cambiando la cultura del lavoro e dell’impresa. Il compito più difficile che spetta alle organizzazioni e ai dirigenti di imprese è considerare quella quota di dono presente nel lavoro, mentre il lavoratore non deve sovraccaricare il lavoro del nostro bisogno di dare e ricevere doni». 
 
 È notizia recente che Mark Zukerberg, il fondatore di Facebook, abbia deciso di quotare la sua creatura in borsa. Non è un’estremizzare l’uso delle relazioni?
«Facebook è già di per sé uno di quei beni che definisco pseudo-relazionali, perché è una risposta parziale ad una domanda giusta. Risponde al bisogno di relazionarsi, di rapportarsi di fronte ad una società che ci rende sempre più soli, ma ciò che manca anche a Facebook è l’elemento della corporeità. In questo caso la relazionalità in gioco ha un basso potere gratificatorio. E il limite si sente. È come avere l’imitazione di un paio di scarpe di una famosa griffe. La soluzione a tutto questo? Esserne consapevoli ed agire di conseguenza».
 

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