Nemmeno la prigione ferma il cambiamento

Finire in cella per aver chiesto una società più giusta e maggiori diritti per tutti: accade nella Repubblica democratica del Congo, dove con la non violenza, i sostenitori del movimento Lucha, Lotta per il cambiamento, stanno promuovendo una lenta ma inesorabile trasformazione sociale
Manifestazioni in Congo

Quando è nato Lucha, il movimento di Lotta per il cambiamento partito da Goma, nella Repubblica democratica del Congo, la disoccupazione giovanile era al 96 per cento. Erano gli inizi del 2012 e solo quattro giovani su cento, secondo le statistiche, avevano un lavoro. La situazione era insostenibile e i giovani sostenitori di Lucha decisero di agire.

«Abbiamo attaccato delle locandine dappertutto in città a Goma per scuotere gli abitanti – ricorda Cécile (nome di fantasia), tra i promotori del movimento – e siamo riusciti a farci sentire. Un giornale ha scritto che, anche se il presidente dell'Ufficio nazionale del lavoro temeva una strumentalizzazione e dichiarava che mancavano le risorse economiche, riconosceva l'attualità e la gravità del problema sollevato dai giovani di Lucha».

A fine giugno 2012, giorno in cui si festeggia l'indipendenza del Congo avvenuta nel 1960, i giovani hanno stampato dei volantini per denunciare la situazione precaria della sicurezza, della giustizia, la vasta disoccupazione e la situazione paradossale che vede da un lato le ampie risorse del Paese e dall'altro la grande povertà della maggioranza della popolazione.

«Mentre distribuivamo i volantini – ricorda Cécile – due poliziotti mi sono venuti incontro e dopo qualche domanda mi hanno arrestata. Non avevo paura, perché non avevo fatto alcun male. Quando stavano per farmi salire in macchina, altri due amici si sono fatti arrestare con me per non lasciarmi sola. Dopo una notte passata in una cella provvisoria, siamo stati trasferiti nella sezione riservata ai controllati. Là non c'era una cella per le donne, quindi mi hanno chiusa in una specie di capannone, dove sono rimasta giorno e notte».

La notizia dell'arresto si diffonde rapidamente e cominciano le manifestazione di solidarietà con sit-in organizzati per chiedere la liberazione di Cécile e dei suoi amici. Dopo tre giorni, la protesta aveva già raggiunto ampie dimensioni e anche gli studenti si erano uniti alla mobilitazione.

Nei sette giorni in cui è rimasta in carcere, racconta Cécile, «ho vissuto un'esperienza incredibile con le mie amiche più strette. Una, in particolare, è venuta ogni giorno a trovarmi. Non avevo diritto alle visite, ma quando veniva lei, mi autorizzavano ad alzare la testa fino a scorgerla, ad una distanza di trenta metri. Ci guardavamo per qualche secondo, lei mi gridava che era con me, io le rispondevo e questo mi dava forza, anche perché mi domandavo cosa potevano pensare del mio arresto le persone che conoscevo. L'ottavo giorno, siamo stati finalmente rilasciati».

«Nei giorni dell'arresto – aggiunge Cécile – ho subìto decine di interrogatori in uffici diversi. È stata una tortura psicologica. Sentivo che la minaccia di morte o di condanna si avvicinava ogni giorno di più. Non riuscivo più a sorridere e mi domandavo: perché Dio permette questo? Perché non interviene per chi sta lottando per la giustizia? Ma mi tornava nell'anima il pensiero di Gesù che muore sulla croce e ritrovavo me stessa. Anche Gesù si era sentito abbandonato dal Padre e non aveva smesso di amare. Anche se avevo pensieri terribili, perché potevo solo restare seduta su un materasso e non c'era nessuno con cui parlare, continuavo a cercare qualche occasione per amare concretamente gli altri».

Cécile inizia così a preparare il cibo per gli altri detenuti e per le guardie. «L'ho fatto con amore, al punto che – dice – quando sono stata liberata le guardie mi hanno chiesto di tornare a trovarle ogni tanto».

Rispetto a quanto accaduto, continua Cécile, «la cosa più importante che ho capito è che l'amore forma, guida, ispira, fa vivere. E ho capito che per realizzare un vero cambiamento, la forza viene dall’amore. La non violenza è la scelta di tanti ed è davvero efficace. Cerco di spiegare ogni giorno che la scelta della non violenza ha in sé stessa la sua giustificazione: viene da un cuore che custodisce la presenza di Dio. Agire con amore significa agire al fianco di Dio. Da parte mia, devo solo fare la mia parte; tutto il resto è Dio a farlo. Grazie a questa motivazione interiore non mi scoraggio, anche se per arrivare a vedere i frutti, si dovrà avere pazienza».

(Nella foto Ap una manifestazione organizzata nel Paese)

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