Nell’interesse del popolo islandese

La popolazione, il governo e la giustizia hanno reagito con mano ferma all’avidità delle banche. Una strategia in controtendenza rispetto all'austerità raccomandata dall’Unione europea
Geir Haarde

Conoscete il caso dell’Islanda? Forse alcuni lettori ben informati avranno saputo dell’assoluzione del suo ex Primo ministro, Geir Haarde, il primo uomo politico processato per eventuali responsabilità nella gestione della crisi finanziaria che fustiga il mondo sviluppato dal 2008.
 
Gli islandesi sono stati forse gli unici che hanno “preso il toro per le corna” e hanno deciso di andare a fondo, di non curare il loro sistema creditizio ferito a morte, ma semplicemente di lasciarlo morire. Per decenni, l’Islanda è stata un paradiso fiscale, un terreno fertile per la speculazione. In quest’isola all’estremo Nord dell’Europa, grande un terzo dell’Italia (103.125 km2), vivono poco più di 331 mila abitanti.
 
L’Islanda non è un membro dell’Unione europea e la sua economia è basata sulla pesca (40 per cento), seguita dalla produzione di software, dalla biotecnologia e dai servizi finanziari. La sua agricoltura, fortemente protetta, produce più che altro patate e ortaggi di serra. Nel suo freddo territorio si allevano ovini e si producono latticini. Il Paese ha un prodotto interno lordo tra i più alti del pianeta, nonché un’elevata aspettativa di vita. Pratica un’assoluta disciplina fiscale, aveva un tasso di disoccupazione praticamente pari a zero e il suo popolo è ordinato e rispettoso dell’ambiente.
 
Ma la crisi del 2008 ha colpito duramente la popolazione. A seguito della crescita esponenziale della bolla speculativa sul credito, le banche hanno finito per chiedere in prestito nientemeno che otto volte l’economia dell'intero paese. Alla fine la bolla è esplosa, e molti risparmiatori hanno perso tutto: risparmi, lavoro e potere di acquisto.
 
Tuttavia, a differenza di quasi tutto il resto del mondo, lungi dall’optare per pacchetti di salvataggio e di austerità fiscale, l’Islanda ha cercato una via d’uscita dalla crisi che ha implicato la caduta dell’attore principale della crisi, le banche, e portato politici e banchieri davanti alla giustizia.
 
Come spiega con chiarezza il sito della Bbc, le cause dell’improvviso crollo dell’economia islandese possono essere fatte risalire al 2001, quando il governo ha introdotto importanti riforme di liberalizzazione del settore bancario, che includevano misure come l’autorizzazione all’indebitamento per l’acquisto di imprese estere. Continua l’articolo della Bbc: «La crisi è scoppiata quando le banche sono state incapaci di rifinanziare il debito. Ormai dovevano capitali e interessi che ammontavano a 200 mila dollari per abitante. Il governo ha chiesto al Fondo monetario internazionale due miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo è sceso del 7 per cento, l’inflazione è salita fino al 12 per cento, un rialzo simile a quello del tasso d’interesse. La valuta locale – la corona – è crollata. I cittadini hanno cominciato a pagare per i piatti rotti: disoccupazione ed esecuzioni ipotecarie. Le proteste non si sono fatte attendere e hanno provocato la caduta del governo di Haarde».
 
A questo punto, il comitato esecutivo scelto per governare ha optato per lasciar cadere le banche e poi nazionalizzarle per salvaguardare i risparmi dei cittadini e congelare per sempre il pagamento del cento per cento del debito verso gli investitori stranieri. Quelli che ci hanno perso sono stati i detentori di buoni islandesi della Gran Bretagna e dei Paesi Bassi, che hanno ricevuto dai loro rispettivi governi solo una compensazione per il credito che gli islandesi hanno annullato senza troppe considerazioni.
 
Il relativo successo dell’Islanda nell’affrontare la crisi si spiega, secondo il ministro delle Finanze  Steingrimur Sigfusson, per le dimensioni della sua economia: «Si fa virare più rapidamente una piccola barca che una grande nave», ha detto alla Bbc. Oggi, l’agenzia di rating Fitch ha alzato il voto all’Islanda di uno scalino, fino a BB+, “investment grade”. Così, le loro obbligazioni hanno smesso di essere “junk bonds”(buoni spazzatura).
 
Fitch ha giustificato la sua decisione come «un riflesso del progresso fatto per il ripristino della stabilità macroeconomica, promuovendo riforme strutturali e la ricostruzione della solvibilità del debito sovrano». L’Islanda è cresciuta nel 2011 del 3 per cento. La caduta del valore della corona ha reso le esportazioni più competitive. Inoltre, nel 2009 il nuovo governo ha continuato a emettere debito e a spendere durante un anno, prima di cominciare a effettuare tagli.
 
Tutto questo contrasta con il caso dei Paesi dell’eurozona con problemi nei loro conti pubblici, i quali, partecipando all’euro, non possono svalutare la propria moneta e si sono impegnati con forti tagli e misure di austerità, oltre a chiedere ingenti aiuti all’Fmi e alla Banca centrale europea.
 
La sentenza di primo grado per l’ex primo ministro Haarde ha determinato che le sue decisioni non hanno influenzato in maniera determinante il processo di crollo dell’economia del Paese. La tesi presentata dalla difesa – che ha addotto l’impossibilità del potere politico di intervenire nell’attività delle banche –, che la crisi islandese sia stata connessa a quella internazionale, è risultata vincente.
 
Ma un’altra sentenza del 17 febbraio ha confermato la condanna in prima istanza per abuso di informazioni privilegiate di un alto funzionario. Sostanzialmente, quello che la cittadinanza ha chiesto e la Giustizia ha eseguito è stato di andare in cerca dei responsabili dei reati economici che hanno portato all’apocalisse. Da parte sua, il governo non ha avuto pietà con gli avidi banchieri che hanno ricercato enormi profitti a scapito della popolazione, che oggi può respirare un’altra volta, con relativa tranquillità, l’aria pura della sua terra incontaminata.

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