Navigare in acque tempestose

Come capire le proteste in Sicilia estesesi anche a livello nazionale? Il contesto è l’annosa questione del mezzogiorno. Un viaggio nel mondo dell’attività economica del nostro Sud
Terreni confiscati alla mafia

 

Le proteste e le agitazioni conosciute come il movimento dei forconi, rappresentano qualcosa di molto profondo, esprimono un disagio che sta emergendo e che prima ancora di ricevere giudizi di valore andrebbe compreso. Non serve aggiudicare colpe collettive, tra l’altro sarebbe ingiusto con chi cerca tutti i giorni di andare controcorrente, a tutti i livelli. E nemmeno serve fermarsi ai consueti stereotipi. La realtà è sempre complessa. Vizi e virtù, Senso civico e malcostume, problemi atavici e voglia di riscatto si mescolano in una realtà all’interno della quale subentra una crisi molto forte, con tutto il suo bagaglio di ulteriore complessità, ed opera sempre più spavaldamente e in modo capillare la delinquenza organizzata. E fare i conti con le mafia camorra e ndrangheta che assieme fatturano 120 miliardi di euro all’anno non è per niente facile.

 

Non bisogna dimenticare che un potere economico suppone sempre potere politico e dunque infiltrazione nei gangli della società, compreso lo Stato. Quando queste organizzazioni impongono prezzi, aziende alle quali aggiudicare le gare d’appalto o riscuotono il pizzo ai commercianti, come si fa a parlare di mercato? Siamo dunque in un contesto dove cambiano i parametri della normalità e nel quale, da secoli, molti cercano di arrangiarsi come possono. Il tessuto sociale ne viene così eroso e la sfiducia chiude spesso il passo alla solidarietà. Lo conferma Franco Caradonna, presidente dell’Unione cattolica imprenditori e dirigenti di azienda di Bari: “Qui al sud – spiega – il problema della crisi attuale si accentua anche per la situazione di per se difficile. Già cercare di far le cose bene è tutta una novità ed è un elemento non secondario. Si vive spesso dell’espediente, dell’escamotage al limite o al di fuori della legge. Dunque capirà che quando un malcostume del genere si generalizza, i problemi si acuiscono. Il nostro deficit è proprio il senso del bene comune, in moltissimi l’hanno smarrito per cui metterci assieme, aiutarci, sapere che rispettare la legge, essere in regola, beneficia tutti non è cosa scontata. Per questo all’Ucid cerchiamo di unire gli imprenditori, di far si che si comunichino tra loro le esperienze, che tirino fuori i problemi per cercare di capire assieme come affrontarli, anche perché spesso l’imprenditore non sa dove sbattere la testa e guardi che non sono pochi quelli che rischiano, che vogliono andare avanti, sviluppare le loro imprese”.

 

Alcuni esempi concreti? “Partiamo dal fatto che rispetto al nord qui al sud hanno dimezzato i fidi pertanto il costo del denaro è superiore di 3-4 punti. Per la situazione di illegalità le assicurazioni ci costano in genere due o tre volte di più. La Puglia nel settore agricolo possiede segmenti che sono unici in Italia, ad esempio l’olio di oliva ha ottenuto il riconoscimento del marchio DOP dall’UE, eppure non si riesce a mettersi assieme, formare consorzi, cooperative, proprio per questa mancanza di senso del bene comune e i produttori agricoli continuano a riscuotere pochissimo per i prodotti che poi si rivendono a prezzi molto più alti”. Mario Zagaria è titolare di una azienda nel ramo metalmeccanico del potentino. Oggi vi ci lavorano 60 operai a fronte del centinaio di tempo addietro. “Nel 2008-2009 il fatturato è calato del 50%, come fai a mantenere i posti di lavoro?”. Come fare per andare avanti? “Stiamo puntando a migliorare la formazione professionale cercando così di offrire processi di lavorazione più nobile. Poi cerchiamo di migliorare la gestione, l’efficienza, stando più attenti ancora ad evitare sprechi. Certo però che nel frattempo vediamo chiudere fabbriche o cose che ci spiazzano, come la notizia che la OM di Bari si sposta in Germania una linea di produzione e chiudono lo stabilimento Iris Bus Iveco,  uno dei quattro che la ditta ha in Europa e si chiude proprio quello italiano…”. 

 

Lo stesso c’è chi non demorde. Me lo conferma Anna Pinto, responsabile amministrativa di Pintotecno. Siamo nell’incertezza. Abbiamo 63 lavoratori e cerchiamo di sostenere l’attività anche perché siamo in un paese piccolo, con un senso di appartenenza molto forte. Qui ci conosciamo tutti, per questo per non creare difficoltà economiche cerchiamo di mantenere i posti di lavoro. A volte, quando siamo ricorsi alla cassa integrazione, l’abbiamo anticipata ai lavoratori, ad esempio. Questo senso di solidarietà ci motiva molto”.

 

Ci spostiamo in Sicilia, dove la tensione non diminuisce. Giuseppe Aminta è un piccolo imprenditore di Siracusa. Come interpreta lei quanto sta avvenendo? “Sebbene non ne condivido le modalità, perche si sta creando un danno enorme, irreparabile, bloccando tra l’altro con manifestazioni locali quando sono in corse altre nazionali, va detto che tutto risponde a un fortissimo disagio sociale e imprenditoriale. C’è un primo problema di fondo: la globalizzazione avanza ma senza regole e questo ci crea una serie di difficoltà, perché importiamo prodotti da Paesi dove i produttori non sono tenuti ad applicare gli stessi standard di produzione nostri a tutela della mano d’opera, del consumatore, ecc. Dunque sono prodotti che competono in mancanza di una reciprocità e questo ci crea grossi problemi. Se pensiamo che la giornata di lavoro a Tunisi costa due o tre euro e in media qui la paghiamo sessanta o settanta euro, come si fa a essere competitivi? Questo è un primo punto che dovrebbe essere considerato attentamente dagli Stati singoli e dalla Unione Europea in generale”. Esiste però anche una problematica nostrana? “Sì, notiamo uno scollamento tra le istituzioni che dovrebbero rappresentarci e dovrebbero canalizzare la protesta ed il movimento che oggi manifesta. Questo aspetto non va trascurato, perché la protesta non può fermarsi al lato emotivo, ma deve poi essere canalizzata e questo lo possiamo fare attraverso le sedi istituzionali, anche se è vero che, ad esempio, i sindacati hanno perso l’autorità necessaria ad essere rappresentativi”.

 

Dove si rilevano le grosse incongruenze per l’attività imprenditoriale agricola? “Lo grossa distribuzione, ossia i grandi centri commerciali, hanno soppiantato i piccoli commerci. Pertanto il produttore è condizionato da loro, una specie di aut aut: o compri al nostro prezzo o importiamo da altri Paesi. Mentre per altri prodotti questa concentrazione ha magari abbassato i prezzi al consumo, nel caso dei prodotti agricoli invece i consumatori li pagano ancora cari. Tra l’altro anche le promozioni che magari abbassano i prezzi queste però vengono caricate al produttore”.

In una situazione così la gente si indebita? “Sì ed è incongruente la modalità di riscossione dei crediti INPS agli agricoltori, che avviene attraverso l’agenzia Serit, è addirittura violenta, perché si giunge a bloccare il mezzo di lavoro, magari il camion a garanzia del credito, si opera il blocco amministrativo e la legge lo consente senza tener conto che è precisamente lo strumento di cui si ha bisogno per lavorare”.

 

Ha un peso la mafia in questa realtà economica? “Lo dico per quello che posso osservare dal mio punto di osservazione: più che sul piano della delinquenza, si tratta di una mentalità che crea un labirinto di clientelismi nei quali tutto si muove a rilento, anche gli organismi pubblici. Per cui ti senti spinto a entrare in questo labirinto dal quale però non sai se ne esci e come uscirne”.

Possiamo considerare questa mobilitazione, tutto sommato, come un attivarsi della società civile? “Sì, ma attenti a perdere l’opportunità di canalizzare questa spinta attraverso gli ambiti istituzionali, anche se a loro volta occorre che questi recuperino la rappresentatività che hanno perso”.

 

 

 

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