Mi è capitato di passare qualche giorno in Polonia, a Cracovia, a poche decine di chilometri da quella frontiera ucraina attraverso la quale passano la massima parte dei profughi, merci per la vita quotidiana e armi destinate ad alimentare il conflitto. All’avvicinarsi alla frontiera, visitando centri di accoglienza dei transfughi da Kiev e Kharkiv, parlando con qualche addetto alla frontiera si percepisce la guerra, la si odora, la si scoperchia. Ed è sempre brutta e stupida. Ma, tolti i pochi tanti addetti ai lavori, a Cracovia sembra che la guerra non esista. Si fa shopping come se niente fosse, si naviga sui battelli fluviali per i turisti al sole autunnale, mentre il freddo non vuole proprio arrivare, si sorbisce una buona birra nelle terrazze di Piazza del Rynek, quella del mercato. Si anestetizzano cioè gli effetti della guerra e si fa tutto come se niente fosse.
Intendiamoci, atteggiamenti del genere sono classificati da psicologi e antropologi nella categoria degli istinti di sopravvivenza o, se vogliamo, delle rimozioni, che ci portano in mille modi diversi a dimenticare, a mettere da parte tutto ciò che provoca dolore e insicurezza. Ma nel caso di una guerra lo si capisce ancora di più, dopo che l’Europa ha vissuto senza conflitti armati dal 1945 e senza più spada di Damocle del comunismo dal 1989. Decenni di familiarità con la pace e la riconciliazione. La guerra quindi è scomparsa, e tuttavia…
E tuttavia ho colto non pochi indizi della persistenza della guerra anche in quel di Cracovia. Ad esempio, il gas era alle stelle e l’elettricità assai costosa: l’illuminazione notturna per la grande chiesa dedicata alla Madonna nella piazza del mercato, il simbolo primo della città, era stata spenta, per cui il trombettista che ad ogni ora segnala il tempo che corre non è più visibile dopo il crepuscolo; anche alberghi e ristoranti hanno abolito definitivamente le luci ad incandescenza, giallognole, così tipiche dei locali polacchi che tanta familiarità davano all’arredo urbano e ai locali pubblici, in favore dei freddissimi led; ancora, noto un notevole incremento delle biciclette e dei monopattini a trazione umana, come mi conferma un vigile arrabbiatissimo per l’aumento degli incidenti tra questi mezzi, i pedoni e le auto…
Segni nascosti, dunque, delle conseguenze della guerra. Ma ce ne sono altri, meno evidenti, che suggeriscono un aumento dei sentimenti di insicurezza della popolazione. Così una giovane donna scoppia a piangere per lo spavento quando un bimbo fa esplodere due o tre petardi; così nelle chiese – me lo confermano un paio di sacrestani – nelle ultime settimane, dopo l’incremento delle distruzioni al sistema elettrico ucraino da parte dei russi, del consumo di candele votive perché la guerra cessi; così in una università dove do una conferenza sugli equilibri geopolitici attuali i giovani presenti mi chiedono ripetutamente con parole di paura quali prospettive intravveda nel conflitto russo-ucraino; e così nelle farmacie salgono alle stelle le vendite di pastiglie anti-nucleare di iodio; così le consultazioni presso psicologi e psichiatri hanno avuto un incremento del 52% rispetto allo scorso anno, e così l’uso di sonniferi e psicofarmaci ansiolitici…
Non è solo la Polonia che vive in questo modo un presente di guerra che in realtà non si vorrebbe dover sopportare. Anche da noi le reazioni sono simili, anche se non a 50 chilometri dalla frontiera ucraina, ma a 1500. Non vogliamo più sentirne parlare, demonizziamo la crescita delle bollette, cerchiamo di barcamenarci per consumare meno, ascoltiamo il papa che parla di Terza guerra mondiale a pezzi, ci appassioniamo pro o contro per la presunta amicizia di certi nostri politici per il presidente russo, ma poi basta. Eppure, da qualche parte del nostro sentire la guerra c’è e, se va bene, ci spinge a gesti di pace, mentre se va male ci spinge a intristire il cuore. Tanto vale “fare la pace”.
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