Mongolia, una periferia al centro della Chiesa cattolica

Prima visita in Vaticano dei rappresentanti ufficiali del buddhismo mongolo, che sono stati ricevuti da papa Francesco. Un segno rinnovato di una antica tradizione in una terra di pacifica convivenza interreligiosa
Mongolia Foto Vatican Media/LaPresse

Se papa Francesco ha sempre detto di voler portare al centro della Chiesa le vere periferie – non solo geografiche – del mondo, la Mongolia rappresenta un esempio concreto e palpabile di questa prospettiva.

Terra dimenticata e, in occidente, misteriosa. Da millenni cuscinetto fra l’Impero di Mezzo (la grande Cina) e la Siberia russa, anche per il cristianesimo è rimasta quasi un sogno proibito o, forse, anche ignorato. La presenza cristiana è ancora minima, ma grazie al lavoro di missionari – soprattutto asiatici –, alla cura di vescovi sudcoreani e di una vicinanza alla sua popolazione fondamentalmente nomade, e di sensibilità sciamanica, si è iniziata una esperienza di annuncio della novità evangelica e della figura di Cristo.

Qui, affermava alcuni anni fa l’attuale vicario apostolico Giorgio Marengo, «l’unico modo per evangelizzare è arrivare al cuore delle persone, sussurrando il cristianesimo». Per arrivare a comprendere e interagire con le «infinite sfumature che caratterizzano il cuore mongolo […] – affermava nella stessa intervista all’agenzia AsiaNews il giovane vescovo cuneese –, lo stile da seguire è quello della discrezione. Non serve urlare per proclamare il Vangelo. La verità ha in sé qualcosa di evidente e non ha bisogno di affermarsi in maniera aggressiva». È questo lo stile di missione che papa Francesco predilige, quello che fa crescere la Chiesa, lentamente forse, ma con coerenza e per attrazione, rinnegando il proselitismo che oggi tutti rifiutano, e che spesso il cristianesimo, come altre tradizioni religiose, si porta in eredità per quanto accaduto per secoli fino a tempi non lontani.

In questi giorni, questa “periferia” della Chiesa cattolica e del mondo ha ricevuto due riconoscimenti significativi proprio nel cuore della cristianità. Qualche giorno fa, infatti, papa Francesco ha ricevuto in udienza privata una delegazione di monaci buddhisti mongoli, accompagnati proprio da mons. Giorgio Marengo. Un nuovo atto di apertura da parte del papa argentino, in quanto mai era accaduto che un gruppo di monaci di tale tradizione arrivasse al Soglio di Pietro. Ma altrettanto significativo anche il gesto di questo gruppo di monaci buddhisti, che hanno compiuto un atto tutt’altro che scontato, che sottolinea quanto la piccola comunità cristiana cattolica sia veramente parte dell’humus culturale di questo mondo lontano anni luce dalla tradizione cristiana e dalla sua sensibilità.

Papa Francesco ha accolto con calore questi venerabili leaders buddhisti, rappresentanti ufficiali del buddhismo mongolo. Particolarmente significativo è stato l’accostamento che il papa ha voluto fare di Gesù e Buddha che, ha detto, «sono stati costruttori di pace e promotori della nonviolenza». Se, da un lato, ha indicato come anche Gesù abbia vissuto in tempi di violenza ma ebbe il coraggio e la forza di insegnare che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano, dall’altro ha tenuto a ricordare che il messaggio centrale del Buddha era la nonviolenza e la pace. L’Illuminato – il Buddha appunto – sottolineò che la conquista di sé è più grande di quella degli altri: «Meglio vincere te stesso che vincere mille battaglie contro mille uomini», ha ricordato papa Francesco citando i testi sacri del buddhismo.

Un incontro quindi molto significativo, che indica non solo l’impegno di Francesco a coinvolgere davvero tutti gli uomini e le donne di fede nella costruzione della cultura dell’incontro e del dialogo, ma anche una presenza feconda e credibile della Chiesa cattolica alle periferie del mondo, dove la sua forza sta nella testimonianza quotidiana e nel dialogo che si costruisce con la vita di ogni giorno. Si comprende, quindi, l’appello di Francesco in un panorama mondiale sconvolto da teatri di guerre in corso, ma anche di potenziali conflitti, non ultimo quello fra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. «In un mondo devastato da conflitti e guerre – ha detto il pontefice accommiatandosi dai monaci mongoli –, come leader religiosi profondamente radicati nelle nostre rispettive dottrine religiose, abbiamo il dovere di suscitare nell’umanità la volontà di rinunciare alla violenza e di costruire una cultura di pace».

Non sono trascorsi che una manciata di giorni ed è arrivato l’annuncio della lista dei 21 nuovi cardinali, fra i quali, con grande sorpresa generale – ma ormai siamo abituati con questo papa – abbiamo sentito il nome – sconosciuto ai più – di mons. Giorgio Marengo, missionario della Consolata e Vicario Apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia. Un riconoscimento importante a questa periferia geografica, sociale e religiosa, dove tuttavia, il cristianesimo era arrivato già nel XIII secolo, grazie al francescano Giovanni di Pian del Carpine, inviato da papa Innocenzo IV come ambasciatore alla corte del Khan.

Dalla sua e da altre testimonianze antiche sappiamo che la capitale imperiale era cosmopolita e multi-religiosa, con una presenza nestoriana, cioè di tradizione cristiana siriaca. Gli atti di questi ultimi giorni da parte cristiana e buddhista sembrano riportare all’attualità questa dimensione religiosa e di convivenza pacifica di un mondo che può essere una vera novità nel panorama mondiale.

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