Una cosa è guardare e un’altra vedere. All’Orangerie, una folla di turisti osserva nella doppia sala circolare le tele di Monet. Lui, il pittore, ha concepito uno spazio meditativo, una cappella dell’arte. La folla non lo sa o non lo vuole sapere. Eppure, ascoltare è anche saper ascoltare. E per poterlo fare, è necessario il raccoglimento, il silenzio interno che porta ad avere uno sguardo nuovo, rivelatore. È come una luce dell’Invisibile che si fa strada attraverso il Visibile. L’Invisibile immenso e fascinoso ci fa entrare in sé stesso attraverso ciò che si vede. Ma bisogna “saper vedere”. Vedere infatti non è osservare, guardare, ma penetrare dove tutto è “chiarità” che ci riempie di una indicibile meraviglia.
Nella tela del 1899 al Museo d’Orsay, Lo stagno delle ninfee, palpitava la vita rosa nel verde, e subito si intuiva che il cuore della poesia di Claude è l’armonia. Una dimensione che egli ha in sé, si direbbe nativa. Egli nasce con essa e trascorre la vita ad esprimerla: essa è dono, desiderio, rivelazione, ricerca. Contiene tutti questi aspetti ed attese, eppure per Monet è la sua anima, per lei lui è “fatto”, come ogni grande artista.
Così, nella tela all’Orsay, bisogna lasciarsi catturare dalla sottile vibrazione emotiva, dal luccichio dei bianchi dei rossi e dei verdi. Allora i nostri occhi si aprono e intuiamo, quasi subito, che esiste un mondo che non è di fantasia, ma di verità; essa abita nell’animo di Monet e anche nel nostro. Lui, il pittore, lo ha già pre-visto per noi. Ora è sufficiente seguirlo, lasciarsi portare, andare oltre il guardare cose dipinte per vedere “il” dipinto reale, cioè la bellezza secondo la scoperta di Monet.

Claude Monet, “Ninfee e nuvole” (1920-1926), Orangerie, Parigi, ph Sailko (Wikipedia)
Nel 1920 il pittore si decide: dipingerà 12 tele, 4 metri almeno per ciascuna, e verranno disposte in due stanze ovali appunto all’Orangerie, a due passi dal Louvre. Il soggetto è uno solo: le Ninfee. Osservate al mattino, al pomeriggio, alla sera, di notte. Distese lungo lo spazio circolare viaggiano lentissimamente e si ritrovano, si inseguono con una pace assoluta e poi si “con-fondono”.
L’aria indistinta del colore che si espande crea un moto perpetuo dolcissimo, invisibile e reale al tempo stesso. Trova parole inudibili se non da chi sa ascoltarle nei fiori, rossi rosa bianchi, nell’acqua e nel salice: sussurri dell’anima, vibrazioni delicatissime e potenti, della potenza che l’immagine vitale sa portare, travolgendo nella sua calmissima pace. Una pittura “vagante”, un fondo blu che tende al violaceo, fasci di verde, scorrere di onde nel tempo che si ferma e intanto anche va.
È un testamento spirituale del vecchio pittore quasi cieco, e lo spirituale per lui è la luce che ora è stanca e scarsa nel suo occhio fisico, ma non in quello interiore che è possente. Nelle ninfee vaganti e musicanti, Monet approda allo spirituale, quasi fosse una “persona”, cui aggrapparsi, una luce invincibile apparsa sulla soglia estrema dell’arte.
È qui che Monet raggiunge l’Arte, nella rivelazione che ci introduce in quell’Oltre invisibile che ne è la sostanza e che egli ci trasmette. Ci passa l’invisibile attraverso “forme” visibili. La musica che è luce e colore, musica dell’Essere passa attraverso un soggetto lacustre in cui ogni forma evapora, viene distillata in attimi. Non è un’arte in-formale (contro o dopo la “forma”), ma una Bellezza rivelantesi in una visione “a-formale”. Ossia, l’Essenza pura, la luce-luce che ha tutto in sé. Monet si è “dis-armato”, ha perduto le certezze conosciute finora, è rimasto appunto nella luce raggiante e pure tenue della visione. Dove non c’è più bisogno di perfezione tecnica, di forme originali, ma di colori-filamenti che si “con-fondono” nella superiore armonia. La luce si fa sentimento, pensiero, emozione allo stato primigenio quindi “verginale”.
Nel silenzio indispensabile per cogliere quest’Assoluto, Monet ha raggiunto la bellezza della Bellezza. Esso lo lascia libero di esprimersi come “sente e vede” in modo nuovo: dal di-dentro di sé per farci entrare all’interno di una realtà dove si può “vedere” ciò che è realmente bello, e quindi vero. Nasce allora un desiderio, si direbbe una preghiera: “Apriamo gli occhi” e vedremo cose mai viste.
Ma bisogna appunto saper vedere: fare il silenzio assoluto di sé, inabissarsi nel presente, ritrovare l’innocenza dell’occhio interiore, per immergersi “nel gran mare dell’essere” (Dante) che è la luce dell’Arte.