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Migrazioni e blocchi navali

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Anche al tempo del governo Draghi contrassegnato da una alleanza che spazia dalla Lega a Leu, si riaffaccia nel dibattito politico italiano, su proposta dall’opposizione e cioè dal partito di Fratelli D’Italia, l’idea di fermare la “bomba migratoria” sulle coste del nostro Paese attraverso un blocco navale militare. Nel suo discorso programmatico Draghi ha definito “cruciale” «la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati».
Per capire le origini di una tale proposta è utile conoscere la lunga intervista rilasciata, nel 2017, da Gianandrea Gaiani per il dossier Disarmo di Città Nuova. L’esperto di politica della difesa, autore con Gian Carlo Blangiardo e Giuseppe Valditara del testo “Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere”, ha ricoperto, dall’agosto 2018 al settembre 2019, l’incarico di consigliere per le politiche di sicurezza dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Per poter dialogare e rendere ragione delle proprie posizioni è necessario conoscere, anche per opporsi nel merito, le ragioni degli altri.

Sbarchi

Migrazioni e conflitti. La guerra può essere necessaria ma occorre una strategia

A colloquio con Gianandrea Gaiani

Analisi Difesa è il primo magazine online in Italia che da febbraio del 2000 si occupa di Difesa, Industria e tematiche militari. Si può essere d’accordo o meno con quanto pubblica ma ha il pregio di una fonte che rende accessibile notizie e approfondimenti su un settore che merita grande attenzione per la salvaguardia della democrazia di un Paese. Lo dirige, dalla sua fondazione, Gianandrea Gaiani, storico di formazione ed esperto di analisi strategiche e studio dei conflitti, è anche é autore di reportages dai teatri di guerra. Collabora, tra l’altro, con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio, Libero, Il Mattino e Il Corriere del Ticino e con periodici come Panorama e Limes senza tralasciare Gnosis, la rivista italiana di intelligence edita dall’ Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI). Gaiani ha il merito di esprimere concetti espliciti, senza la riserva di doverne dare una versione diversa nella forma ma non nella sostanza.

Con il demografo della Cattolica di Milano, Gian Carlo Blangiardo, e il giurista Giuseppe Valditara dell’università di Torino, ha scritto il libro “Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere” dove si pone una distinzione tra immigrazione da incoraggiare perché utile e flussi migratori che si manifestano come vere e proprie armi improprie capaci di disintegrare le società occidentali.

Dal suo punto di osservazione si può dire che ci troviamo davanti alla Terza guerra mondiale a pezzi?
Posso concordare sullo stato di caos latente che esiste in un mondo che non è più quello bipolare della Guerra fredda, dove le due potenze facevano scoppiare e finire i conflitti, ma le guerre mondiali che abbiamo avuto finora hanno innanzitutto provocato più morti: 15 milioni la prima e 50 milioni la seconda. Oggi abbiamo tanti conflitti regionali ma non lo scontro diretto tra quelle potenze che si incontrano al G20. Si tratta poi di operazioni militari tecnicamente blande. Ad esempio gli Usa dichiarano di fare la guerra all’Isis conducendo una ventina di incursioni aeree al giorno, mentre nel 1999 ne conducevano quotidianamente ben 600 sul piccolo Kossovo. Difficile usare la categoria “guerra” a ciò che sta avvenendo in Siria dove, in 6 anni di combattimento, il numero dei morti oscilla, secondo le stime, tra 300 e 450 mila. Così l’intervento in Afghanistan in atto dal 2001 ha provocato tra le forze occidentali 3.500 caduti, tra i quali 2.400 statunitensi. Nella battaglia di El Alamein, nel 1942, i morti in battaglia, tra inglesi, italiani e tedeschi, furono 20 mila in una sola settimana. Insomma la guerra mondiale è un’altra cosa anche in termini di perdite tra i civili perché abbiamo una tecnologia che permette interventi più mirati ed esiste un’opinione pubblica occidentale più sensibile. Oggi la notizia della morte di due bambini sotto le bombe arriva sui giornali, un tempo ne morivano a migliaia e non se ne parlava. In Occidente esistono molti freni a dichiarare e condurre fino alla fine un conflitto con la conseguenza paradossale di possedere una potenza tecnologica mai avuta sulla Terra, senza poterla tuttavia utilizzare per vincoli di carattere politico. E la conseguenza è il caos.

Ci sono sempre gli Stati Uniti che con Trump non sembrano avere queste remore ….
In effetti gli Usa da forza stabilizzatrice, pur con tutti gli errori del passato, sono diventati, a mio parere, un fattore di destabilizzazione. Si veda cosa sta accadendo in Siria e in Iraq dove è evidente che il blando impegno degli Stati Uniti rispetto ai conflitti passati è dovuto al fatto che sono autosufficienti dal punto di vista energetico, mentre il Nord Africa e il Medio Oriente restano molto importanti sul piano energetico per l’Europa e il resto del mondo ma gli Usa hanno contribuito a renderle instabili in questi ultimi anni.

Per quale ragione?
Al di là delle simpatie e della propaganda, se guardiamo cosa ha fatto Obama e come sta continuando a fare Trump, ci rendiamo conto che entrambi hanno perseguito pragmaticamente gli interessi del loro Paese. Fino agli anni 90 ha prevalso la linea dell’intervento in Medio Oriente per cercare una stabilità che potesse assicurare il petrolio necessario alla superpotenza nordamericana. Oggi con la disponibilità dello Shale gas è diventata autosufficiente e addirittura secondo alcuni analisti, gli Usa nel 2020 diverranno i maggior esportatori di energia al mondo. Non lo potranno fare con gasdotti e oleodotti ma con le navi e quindi avranno interesse a mantenere i prezzi alti, ma certamente non hanno alcuna intenzione di mandare ancora una volta 200 mila soldati in Iraq come nella guerra del Golfo del 1991. E questo si vede con gli effetti della guerra dichiarata all’Isis che è ancora in piedi nonostante 3 anni di conflitti, una cosa che fa ridere dal punto di vista militare se solo si considera che Saddam Hussein è stato fatto cadere in un mese. Gli Usa hanno interesse a mantenere instabili queste aree del pianeta. Lo abbiamo visto quando hanno deciso, assieme ai francesi, di far fuori Gheddafi con un conflitto che è durato 7 mesi lascando nel caos una regione vitale per gli interessi energetici europei e italiani in particolare.
Si continuano a combattere guerre infinite come accade in Iraq dopo il ritiro affrettato deciso da Obama. Gli Usa decidono invece di contrastare la Russia che è intervenuta per dare stabilità in Siria, mentre allo stesso tempo pretendono di combattere il terrorismo colpendo l’Iran quando tutti sanno che l’ultimo terrorista scita si è visto nel 1988 in Libano. I terroristi odierni sono di matrice sunnita e ricevono sostegno dalle Monarchie del Golfo, alleate degli Usa e degli europei.

Una strategia che riguarda solo il Medio Oriente?
Non mi pare proprio. Ad esempio non si capisce il motivo dell’attivismo Usa verso l’Ucraina per deporre un governo eletto legittimamente, e non verso ad esempio la oligarchica Bielorussia, se non si tiene conto che in Ucraina passano i gasdotti dalla Russia per l’Europa. L’interesse americano è quello di spezzare ogni rapporto tra la potenza industriale europea e quella delle fonti energetiche russe. Dai tempi di Napoleone si tratta di una costante dell’intervento britannico e poi Usa verso qualsiasi soggetto continentale in grado di diventare una superpotenza. Si spiega in tal modo l’intervento statunitense nella prima guerra mondiale dopo che i tedeschi avevano chiuso il fronte orientale e si apprestavano a concentrarsi su quello occidentale. O nella Seconda quando la Germania stava per conquistare l’intero continente. Oggi come europei soffriamo l’inconsistenza militare mentre siamo dei nani in politica perché siamo alleati con il nostro maggior avversario e cioè gli Usa che hanno interessi diversi e contrapposti ai nostri, con effetti evidenti sul mantenimento della pace. Ad esempio la loro intenzione in Siria è quello di impedire ad Assad di riprendere il controllo del territorio, provocando uno stato di conflitto permanente pericoloso per l’Europa che, tra l’altro, deve gestire il flusso dei profughi.

Come si spiega allora il sostegno del nostro Paese alla guerra contro la Libia di Gheddafi nel 2011? Oggi quasi tutti, a partire dai vertici militari, ne parlano come di un errore…
Non è stato un errore. Siamo stati obbligati in forza di un ricatto. Il venerdì santo di quell’anno è venuto a Roma il presidente della commissione steri del senato Usa, John Kerry, per parlare con Berlusconi che aveva assicurato il mancato intervento diretto in Libia da parte dell’Italia che pure assicurava le basi alla Nato per colpirla. Il giorno di Pasqua Obama stesso telefona al presidente del consiglio italiano che, il giorno dopo, annuncia la partecipazione della nostra aviazione ai bombardamenti in corso sul Paese Nordafricano. Berlusconi ha dovuto cedere a pressioni fortissime contravvenendo ad un trattato internazionale bilaterale firmato con Gheddafi che prevedeva, tra l’altro, la non aggressione tra i due Paesi e il divieto di fornire basi a terzi per condurre attacchi.
Quella guerra serviva a destabilizzare una regione ma sarebbe stata impossibile da condurre per gli Stati Uniti senza l’utilizzo delle basi italiane, se non al prezzo di un impegno di forze e di uomini che il congresso americano non avrebbe mai autorizzato Obama a dispiegare. Anche perché Gheddafi aveva cominciato a collaborare e non era più visto come il feroce nemico dei tempi di Reagan. All’epoca l’Unione africana fece notare che la caduta di Gheddafi avrebbe portato il caos nel Shael con l’effetto di avere una Somalia (stato fallito, ndr) affacciata sul Mediterraneo. Un tipo di analisi che anche gli analisti hanno fatto con piena consapevolezza, come è facile immaginare. Allo stesso tempo il ritiro deciso da Obama in maniera affrettata dall’Iraq nel 2011 ha comportato l’entrata in quel Paese delle forze Isis che hanno preso facilmente il controllo nella parte nord.

Ma nel caso libico non è stato predominante l’interesse francese?
La loro belligeranza è stata funzionale agli interessi degli americani ed è stata evidente l’intenzione di Sarkozy di voler sottrarre gli affari agli italiani, ma anche per loro si è trattato di un autogol perché il caos conseguente non ha portato affari neppure a Parigi.

Come se ne esce ora? Ha un senso andare a trattare con sindaci e capi tribù la gestione dei flussi di migranti?
La questione dei migranti può essere intesa a partire da un testo di cui ho curato l’introduzione all’edizione italiana edita da LEG e che si intitola “Armi di migrazioni di massa”. L’autrice, la statunitense Kelly M. Greenhill, dimostra con numerosi casi, a partire dagli anni 50, l’uso di masse di migranti a scopo geopolitico e cioè l’utilizzo di tali flussi per mettere in difficoltà altri Paesi militarmente più forti come sta avvenendo oggi nei confronti dell’Europa. L’Italia in particolare si trova in difficoltà a gestire una massa anomala di migranti che non può e vuole ricacciare in Libia con la forza. Non è un caso che le principali rotte migratorie, quella balcanica e quella della Libia, provengano da territori sotto l’influenza turca e del Qatar. Erdogan ha invitato i turchi in Germania a fare molti figli per esercitare un’egemonia islamica. In tale quadro l’Italia rappresenta il primo caso nella storia di un Paese che volontariamente rinuncia ad esercitare controllo sulle proprie frontiere decidendo cioè chi può entrare e chi no.

Siamo un Paese civile tenuto al rispetto del diritto umanitario…
Potremmo esserlo se andassimo a salvare gli Yazidi sotto attacco genocida, o i cristiani assiri perseguitati o ancora i curdi. Ma oggi chi entra in Italia è al 96% un maschio che non scappa dalla guerra e non è povero. Molti di loro si dichiarano minorenni anche se non lo sono affatto e solo chi è ingenuo o in mala fede può crederlo. Purtroppo c’è un giro di denaro che coinvolge i trafficanti come il carrozzone della politica che lucra dal business dell’accoglienza.

Quale politica andrebbe applicata?
Ci vogliono dei respingimenti assistiti. Mettiamo le nostre navi in acque libiche d’accordo con la guardia costiera libica che stiamo addestrando così nessuno potrà essere esposto al rischio di morire in mare. Si raccolgono tutti e si riportano in Libia in campi gestiti dall’Onu. Ovviamente se c’è una donna incinta o un ferito si porta in Italia per curarlo e poi lo si rimpatria nel Paese di provenienza. Secondo la convenzione di Ginevra chi scappa dalle guerre deve essere accolto in campi profughi nei paesi confinanti come avviene per i siriani che scappano in Turchia, Giordania o Libano. E da questi campi fanno richiesta di asilo verso i diversi Paesi. Invece in tal modo, senza controllo, stiamo importando masse di persone utilizzabili dalla criminalità organizzata come avviene con la mafia nigeriana. I veri poveri non hanno soldi per pagare i trafficanti. Il problema è destinato ad esplodere in particolare anche nel resto dell’Europa dove si concentrano masse di immigrati islamici che sono già cittadini con pieni diritti e finiscono per controllare zone geografiche autonome dove cioè la polizia non entra e si applica la sharia. Avviene in Francia, in Belgio come in Svezia. Ancora non avviene in Italia perché non è stata approvata la legge sullo ius soli. Insomma la politica della sicurezza e difesa non riguarda solo le armi. Un flusso incontrollato di migranti produce instabilità grave in un Paese attraversato da una precarietà e povertà crescente.

Torniamo al caos provocato in Libia con la guerra del 2011. Ci sono vie di uscita?
Molti rimpiangono Gheddafi. Manca un uomo forte capace di controllare il territorio. Haftar sta crescendo sempre di più, gestisce quasi la metà del territorio nazionale e si sta espandendo ma l’Italia fa bene ad appoggiare il premier al-Sarraj perché controlla o esercita un’influenza sulla Tripolitania, cioè sulle zone strategiche da dove partono i migranti e dove è situato il terminal del gasdotto che porta il gas libico in Italia. Dobbiamo sostenere il primo ministro libico Fayez al-Sarraj per farlo trattare alla pari con Haftar che riceve il sostegno della Russia. Putin ha interesse a fermare il terrorismo islamista che minaccia di espandersi non solo nel Caucaso, dove già esiste, ma di contaminare quel 15% di popolazione musulmana in Russia che, estremizzata, potrebbe far insorgere una guerra civile devastante.
Quindi non basterebbe un accordo tra le maggiori potenze per fermare l’incendio in corso in Libia ?
Certo. La Russia ha interessi comuni con l’Europa, ma questi sono molto diversi da quelli degli Usa che, con Trump, apertamente hanno dichiarato una ostilità aperta, già in sordina sotto Obama, verso la Germania inteso come Paese leader dell’Europa.

In questo quadro di tensione come si spiega la scelta dell’Italia di aderire al piano industriale statunitense imperniato sui nuovi caccia bombardieri F35 della Lockheed Martin?
Da anni dico che gli F35 sono una scelta suicida per l’Europa e per l’Italia. Prima di tutto perché costano troppo e non funzionano poi così bene. Ma, se anche fossero perfetti, avviene che, comprando americano, non investiamo nell’industria europea e diventiamo sempre più dipendenti dall’industria statunitense che in futuro potrà far chiudere o inglobare le nostre aziende.

Siamo un Paese che ospita molte basi statunitensi, dove stazionano anche ordigni nucleari come è dimostrato su Aviano e Ghedi …
Ma gli accordi sulle basi risalgono al 1954 e sono relativi all’equilibrio di forze di quel periodo. Oggi non possiamo sentirci costretti ad acquistare gli F35 se non quei pochi ad atterraggio verticale, necessari per la portaerei Cavour. Secondo me si poteva trattare la loro fornitura con la permanenza delle basi Usa di Aviano e Sigonella. Per il resto dovremmo investire in aerei europei, come abbiamo fatto gli Eurofighter e i Tornado costruiti da consorzi europei.
Siamo al paradosso di un Europa che si riempie la bocca di una politica di difesa comune e poi rimpiazza il Tornado, primo velivolo di attacco e bombardamento europeo, con un caccia statunitense che ci offre una collaborazione industriale del tutto marginale e pochissime o nulle ricadute tecnologiche. È chiaro in questo caso che paghiamo la mancanza di una classe di statisti in grado di elaborare e porre in atto strategie di lungo periodo. Non è solo un problema italiano. Oggi in Europa abbiamo degli amministratori delegati che sono espressione di poteri finanziari.

Se anche si realizzasse l’accordo industriale della difesa tra i Paesi europei, tali prodotti andrebbero comunque venduti anche fuori dal perimetro del continente. Si può produrre rispettando il criterio dell’autosufficienza? L’Italia ha salutato come un successo la vendita di 28 Eurofighter al Kuwait che fa parte della coalizione a guida saudita che bombarda lo Yemen ….
Oggi i mercati migliori per le armi sono il Medio Oriente nell’eterno conflitto tra sunniti e sciti e l’Estremo oriente dove ci sono le tensioni sul mar cinese meridionale. Relativamente allo Yemen, le bombe arriverebbero da qualsiasi altra fonte ovviamente, senza dover dipendere dalla fornitura della Rwm Italia. La Royal force britannica, ad esempio, ha ceduto gran parte del proprio arsenale di bombe autoguidate all’aviazione saudita che le ha sicuramente pagate a caro prezzo. Prima di noi vengono molti altri fornitori. A cominciare dagli Stati Uniti e Gran Bretagna

A maggior ragione noi potremmo decidere di non partecipare a questo banchetto….
Credo che vada definita una linea politica verso questi Paesi. In Siria siamo contro Assad e appoggiamo i ribelli che sono in gran parte guerriglieri jihadisti finanziati da Arabia Saudita e Qatar, i quali ora sono in conflitto tra di loro perché sostanzialmente la prima sostiene i salafiti e il secondo predilige i fratelli musulmani. Insomma sosteniamo in qualche modo la stessa galassia da dove provengono coloro che si fanno esplodere nelle città europee mentre i servizi segreti siriani di Bashar al Assad, che sarebbero i nostri nemici, sono la fonte più accredita per cercare di sventare gli attacchi terroristici nell’Occidente alleato delle petro monarchie ereditarie che finanziano centinaia di predicatori radicali in giro per l’Europa.

Ma Assad viene definito come un criminale di guerra che usa le armi chimiche
Assad non può essere un santo. Non lo può essere un dittatore in Medio Oriente ma non ha alcun interesse ad usare le armi chimiche perché non ne trae alcun vantaggio tattico e non gli conviene macchiare la sua immagine in una guerra che ha già vinto di fatto. Quando Saddam Hussein le utilizzò contro i curdi a scopo dimostrativo e come deterrente, uccise 5.500 persone in pochi minuti. Voglio dire che nessuno userebbe un tale strumento terribile per uccidere 90 persone come è stato detto per accusare Assad. Le immagini, fornite solo da un’agenzia vicina ad Al Queda, mostrano soccorritori in maniche di camicia che usano le stesse mascherine che usano i ciclisti al centro di Milano. Il sarin è un veleno che penetra nella pelle ed è in grado di uccidere in pochi minuti anche chi presta aiuto. Si tratta, a mio avviso, di propaganda usata dai ribelli per far muovere l’emozione dell’opinione pubblica internazionale forzando l’intervento armato delle forze occidentali. Qualcosa di simile accadde a Sarajevo nel 1999 quando i serbi avevano già vinto quella terribile guerra ma i bosniaci decisero di bombardare il mercato della città provocando vittime tra la loro stessa popolazione civile e determinando l’intervento della Nato.

In tutto ciò che sta accadendo è rintracciabile la prevalenza del complesso militar industriale? E quale strategia sta seguendo se poi alla fine si sa che i paesi emergenti saranno in poco tempo le potenze asiatiche emergenti?
Il peso delle industrie della difesa è ancora importante come lo fu al tempo di Eisenhower che le aveva viste crescere prepotentemente con la seconda guerra mondiale e quella di Corea. Le lobby esistono e sono istituzionalizzate negli Usa ma quel Paese sa fare sistema perché, ad esempio, Obama ha deciso di fare tagli al Pentagono ma ha incentivato l’export militare nei Paesi dell’Estremo oriente e del Golfo persico. L’industria così non ne ha risentito perché ha visto una contrazione di vendita interna e un’espansione di quella esterna. È quello che è avvenuto per Italia con la vendita degli Eurofighter al Kuwait, anche se manca una strategia ad ampio respiro. Vogliamo evidentemente vendere i sistemi d’arma ma dovremmo essere in grado di collocare questa scelta all’interno di una visione di prospettiva e alleanze politiche. Il nostro peso politico è limitato ma è importante definire con chi si sta. Sosteniamo le Petro monarchie del Golfo o vediamo con favore l’Iran? Siamo d’accordo con la linea statunitense o la subiamo solamente?

Non dovremmo avere una linea europea?
Finora siamo stati capaci di sviluppare una politica di relazioni industriali nel settore della difesa europea tramite i consorzi delle eccellenze produttive. Abbiamo multinazionali come l’Mbda che produce missili, e consorzi come quello Orizzonte che fa navi e quello Eurofighter che produce il caccia Typhoon. Restano sempre le contraddizioni come si è visto con l’espansione in Francia di Fincantieri contrastata da Macron.
Una politica di difesa comune in Europa non arriverà dalla composizione di un esercito comune ma dalla messa in comune di interessi per condurre assieme operazioni militari dagli obiettivi condivisi, ammesso che ci sia ancora la forza e la determinazione politica per condurre una guerra.

C’è ancora bisogno di guerre oggi nel mondo?
Alcune sono necessarie ma non si devono trascinare in maniera così blanda da renderle infinite. La guerra deve essere violentissima e rapidissima. Una volta finita, bisogna ricostruire. Invece oggi si conducono guerre di logoramento, condotte così debolmente da non finire mai come sta avvenendo in Iraq e Afghanistan.

Considerando che entro 15 anni si presume che verrà azzerato il nostro vantaggio competitivo nel settore della tecnologia della difesa, quale strategia stanno seguendo le aziende italiane? A che serve vendere a Paesi emergenti che in poco tempo si supereranno?
Credo che sia in atto un strategia di sopravvivenza, mentre l’unica strada per mantenere e accrescere il nostro vantaggio verso i competitori stranieri resta l’investimento in ricerca e sviluppo. Ma senza grandi commesse anche interne questo investimento è destinato ad eclissarsi. Così davanti ai velivoli di quinta generazione (es.F35) sarebbe auspicabile un’alleanza alla pari con Francia e Germania, visto che la Gran Bretagna si staccherà sempre di più, ma se questi soci ci snobbano, dobbiamo pensare anche a progetti condivisi con altri soggetti, compresi i russi. Sono persuaso che oggi le alleanze sono come le mozzarelle e quindi tutte soggette a scadenza rapida. La stessa Nato non ha senso di esistere come alleanza difensiva (a meno che non vogliano credere alla “minaccia russa”) e dal punto di vista bellico ha mostrato tutte le debolezze nel confronto con i talebani.

Eppure il nuovo concetto di difesa non è legato ad un confine, come poteva essere quello orientale dell’Unione Sovietica, ma all’intervento necessario per difendere gli interessi nazionali dovunque questi siano minacciati. La nuova linea di confine e il campo di battaglia è ovunque nel mondo….
Ma questo lo decide un’alleanza tra interessi comuni come possiamo senz’altro avere con altri Paesi europei nello stabilizzare la Libia. Una volta deciso l’obiettivo, poi, bisogna essere determinati. Il fatto è che non possiamo avere interessi in comune con la Francia nel Mediterraneo così come non ne abbiamo alcuno con la Turchia che è un grande competitor regionale sullo stesso mare. Le linee di politica estera restano ancorate a schemi che sono superati. L’Unione europea attuale è diversa da quella che avevamo immaginato. I Paesi europei non sono nostri partner ma competitor. L’Europa che non difende le frontiere esterne è costretta a vedere erigere muri lungo i suoi confini interni. Ma questo avviene perché sono convinto che l’arma geopolitica delle migrazioni è funzionale agli interessi delle monarchie del Golfo e ai loro alleati statunitensi per quanto sia così difficile per noi italiani poterlo credere e anche solo immaginare.

Tutti queste fratture tra nazioni e interessi contrapposti non sono delle basi di innesco di un conflitto mondiale capace di travolgere tutto?
No non lo credo. Sono verosimili grandi conflitti regionali molto intensi come quello che può deflagrare tra Arabia Saudita e Iran ma l’interesse dei grandi attori internazionali non è quello di cercare uno scontro diretto quanto un’azione sistematica intesa a creare instabilità nel campo avverso. La Russia è costretta così ad intervenire in Siria per difendersi dal dilagare di una guerriglia alimentata dagli Usa ma che potrebbe invadere il Caucaso e le ex repubbliche sovietiche con effetti incalcolabili. Una situazione che è capace di produrre alleanze nuove e inedite come sta avvenendo tra Cina e Russia costrette a difendersi dagli Usa. Non si sono mai viste navi cinesi condurre esercitazioni congiunte con quelle russe nel mar Baltico, ma questo è quello che sta avvenendo. Un confronto globale che si sta sviluppando con tutte le armi anche quelle non convenzionali.

La guerra come inganno e dissimulazione …
Sta cambiando il concetto di guerra. i conflitti oggi sono combattuti sul terreno da milizie dotate per lo più di armi a bassa tecnologia come i kalashnikov e i lanciarazzi.

Resta il fatto che esiste una proliferazione nucleare che non più di dominio esclusivo di due superpotenze. Questo non è un pericolo reale?
Certo ma il confronto avviene per interposta persona tra superpotenze. Il caso nordcoreano è un confronto tra gli Usa e una Cina che provoca con il suo alleato a Pyongyang per ottenere un accordo con Washington sull’intera area del Pacifico. Vogliono scambiare il disarmo nordcoreano con l’espansione cinese nell’arcipelago del mar meridionale della Cina, la cosiddetta “lingua di bue”.
La proliferazione nucleare spesso è utile a creare una moneta di scambio da barattare con altre cose. Così, al contrario, la presenza dell’arma nucleare in Israele ha indotto la Siria a dotarsi delle armi chimiche come deterrenza equivalente in caso di attacco atomico. La proliferazione nucleare potrebbe essere arrestata da una improbabile spartizione del globo terrestre in una sorta di nuova Yalta. Resta il fatto che il mondo multipolare rimane una realtà assai complessa da gestire e interpretare.

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