Migranti, cardinale Montenegro: i cristiani abbiano più coraggio

Intervista al cardinale Francesco Montenegro in occasione dei dieci anni dallo storico viaggio del papa a Lampedusa. "Anche Gesù - ricorda - è stato un migrante".
EPA/L'OSSERVATORE ROMANO

Il primo viaggio, quello che ha dato la direzione a tutto il pontificato di papa Francesco, è durato poche ore ed è stato annunciato solo sette giorni prima senza inviti ufficiali. A Lampedusa, dove frenetici erano stati i preparativi organizzativi e di sicurezza, quella notte era arrivato ugualmente un barcone con 166 immigrati come avviene ogni giorno quando il tempo è buono. Lo stesso Francesco ha raccontato di quel primo viaggio come una spinta interiore che lo aveva costretto a fare i conti con se stesso di fronte alle notizie spaventose di donne, uomini e bambini inabissati sulla rotta del Mediterraneo centrale.

L’otto luglio 2023 saranno 10 anni da quel viaggio e l’isola si prepara ad una tre-giorni di memoria e riflessione che si concluderà domenica con la messa presieduta dal cardinale Francesco Montenegro (diretta su Rai1), membro del Dicastero delle Cause dei Santi e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e all’epoca arcivescovo di Agrigento, che di quella visita inaspettata e straordinaria fu un testimone. Il 19 giugno scorso il papa lo ha nominato amministratore apostolico della ‘sede vacante’ dell’eparchia di Piana degli Albanesi (PA).

Eminenza, don Franco, qual è il suo ricordo di quella giornata così intensa in cui ha accolto il papa a Lampedusa?
Quei ricordi continuano a scorrere nella mia mente come una pellicola che uno vede e rivede, fermandosi fotogramma per fotogramma su ogni minimo particolare. Prima il lancio della corona di fiori in mare di fronte alla “Porta d’Europa”, il monumento che ricorda le migliaia di morti e dispersi nel Mediterraneo in un clima di preghiera; poi l’incontro con alcuni immigrati sul molo Favarolo, luogo emblematico di Lampedusa dove approdano i vivi e vengono portati i cadaveri raccolti in mare; e poi gli abbracci con i bambini, la celebrazione eucaristica, la gratitudine per gli isolani. Il papa era concentrato, ascoltava attento e non smetteva di ripetermi: “quanta sofferenza!”. Il ricordo più forte è proprio l’impressione che ho avuto della figura di Francesco, questo vederlo e sentirlo pellegrino nel Santuario della sofferenza degli uomini. Noi siamo abituati ad andare nei santuari mariani a fare pellegrinaggi e preghiere. Lui ha scelto di fare il suo primo pellegrinaggio da vescovo di Roma nel santuario della sofferenza dell’uomo, nella periferia dell’Europa del benessere dove muoiono migliaia di uomini e donne senza nome.

Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? “Adamo dov’è il sangue di tuo fratello?” Quelle domande ancora riecheggiano come una denuncia alla nostra umanità anestetizzata dalla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, espressione che papa Francesco ha coniato proprio a Lampedusa. È stato un momento di portata storica…
Dieci anni fa papa Francesco non ha fatto un viaggio a Lampedusa, sarebbe meglio dire che da Lampedusa ha iniziato un viaggio che dura ancora oggi, un viaggio che ha condiviso non solo con la Chiesa ma con tutta l’umanità. Chissà, forse nel futuro si parlerà dell’ 8 luglio 2013  sui libri, ma quello che conta è che troviamo il coraggio di scrivere quella giornata nei nostri cuori. Dieci anni dopo è questa la domanda che dobbiamo farci, soprattutto noi che ci diciamo amici di Dio: il nostro cuore è cambiato? Ci faccia caso: il povero è sempre un “altro”: non è quasi mai un fratello o un amico. Se poi questo povero è di colore è doppiamente un “altro”, anche per chi si crede un buon credente. La ricerca di questi fratelli, di chi non conta nulla, di tutti gli scartati della storia è ricerca di Dio. Noi abbiamo invece paura del povero, di questo “altro”, che denuncia chi siamo.

Proprio in questi giorni si registra nuovamente in Europa una mancata convergenza sulle politiche migratorie. In alcuni stati europei avvengono respingimenti illegali e anche torture da parte della polizia senza che questo provochi indignazione e contro misure…
Dobbiamo intenderci sulle parole: politica è quell’arte che cerca il bene dell’uomo e il bene comune. In Europa c’è una non-politica delle migrazioni basata sull’emergenza. Per noi, per i nostri figli, è un diritto poter andare in un’altra nazione per cercare un futuro migliore, ma se un africano decide di venire da noi allora è un’invasione. Le migrazioni di oggi sono il risultato di un’ingiustizia secolare nei confronti dell’Africa che l’ipocrisia europea fa finta di non vedere. Ci indigniamo però se gli immigrati hanno i cellulari senza renderci conto che è uno strumento indispensabile di salvezza e di relazione. E come se si sfila una camicia e si apre un buco. Si può tamponare con un rattoppo ma poi bisogna cambiare la camicia. Con la logica dell’emergenza non risolveremo mai una questione gigantesca.

10 anni fa il tema del salvataggi in mare non era ancora una questione centrale del dibattito pubblico. Oggi sono in corso anche processi in Italia…
Prima salvare era un dovere ora è una colpa. Forse perché i salvati poi devono arrivare sulle nostre coste e questo disturba.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni la rotta più letale è quella dalla Libia e dalla Tunisia che arriva sulle nostre coste.
Ci meravigliamo quando succedono i naufragi: per giorni un tappeto di telecamere e trasmissioni, commemorazioni e cerimonie, ma intanto paghiamo la Libia o la Tunisia per fare il lavoro sporco e ci sentiamo a posto. Se questa è politica qualcuno mi dovrebbe spiegare cos’è la politica. Ho la documentazione delle torture in Libia. E non credo di essere il solo ad avere evidenza di quello che accade. Non sono carezze, sono gravi violazioni dei diritti umani, sono violenze. Finiamola di fingere e di meravigliarci. Piangiamo per una strage quando sappiamo che tra mezz’ora un’altra barca va a fondo. Il vescovo di Algeri mi diceva poi che quelli che noi rimandiamo indietro con i respingimenti sono uomini già morti: alcuni si mettono a mendicare, altri finiscono in prigione o prendono la via del deserto, ma per loro non c’è futuro. Chi sta lavorando veramente per fermare tutto questo?

La presidente della Commissione europea von der Leyen ha chiesto di lavorare su vie legali alternative, ma i rifugiati che hanno beneficiato dei corridoi umanitari nel 2022 sono appena 17 mila secondo i dati Eurostat.
Il problema è che oggi ci vorrebbero delle autostrade umanitarie, non dei corridoi. Ci sono 269milioni di migranti nel mondo, c’è chi lo chiama il sesto continente. Se dovessi regalare un mappamondo dove manca un continente me lo restituirebbero perché inutile e monco. Noi pensiamo noi stessi e il nostro futuro senza tenere conto di questo nuovo continente e del fatto che il mondo sta cambiando e dunque le risposte che pensiamo sono inadeguate o soltanto buone intenzioni per le dichiarazioni pubbliche.

Parliamo del cammino ecclesiale. Dopo gli incontri di Bari e Firenze e il viaggio a Napoli di papa Francesco, a settembre ci sarà un nuovo appuntamento per parlare di Mediterraneo a Marsiglia.
Non dico che sia inutile incontrarsi, elaborare un pensiero condiviso e una cultura mediterranea e non voglio essere frainteso. Ma credo che il nostro primo assillo deve essere lavorare sul cuore dell’uomo. Quando mi ritrovo dei ragazzi provenienti da un Paese straniero dovrei subito contattare il vescovo del loro paese d’origine per sapere come aiutarli veramente. Non siamo ancora entrati in questa mentalità di comunione. Penso che dei tavoli di scambio tra i vescovi dei Paesi di partenza e di accoglienza siano utili e necessari.

Per l’anniversario della visita del papa lei tornerà a Lampedusa, isola per la quale si era pure proposto il premio Nobel per la pace…
Lampedusa è un’isola di contraddizioni. Il papa l’ha definita un laboratorio di un mondo nuovo perché qui povertà e accoglienza s’incontrano. Quanti incontri, quanti drammi! Ricordo il volto sereno di una bambina che sembrava dormire stanca dopo l’ultimo gioco mentre il suo cadavere portava i segni di una morte orribile, la grande sofferenza degli isolani quando c’erano 10 mila immigrati sull’isola o dopo il grande naufragio del 3 ottobre. Quanto ho imparato dalle vecchiette che mettevano il termos fuori dalla porta perché gli immigrati si riscaldassero o che li facevano entrare in casa per far fare una doccia e offrirgli qualcosa da mangiare! È questo il coraggio che serve per cambiare il mondo. Accoglienza è questo: amicizia, non elemosina. Una signora dal balcone mi ha detto: “Don Franco dica a tutti che non abbiamo bisogno del premio Nobel, vogliamo solo che non succeda più.”. C’era stato l’ennesimo naufragio in quei giorni. Ecco: questi sono i giganti di un mondo nuovo.

Partendo proprio da quel viaggio a Lampedusa, in questi 10 anni papa Francesco ha dettato alla Chiesa un magistero non solo di parole e dottrina ma di gesti e segni. Ci ha detto: tornino i volti, la carne, il sangue dei piccoli e degli oppressi, torni la gioia del Vangelo. Ma su alcuni temi a volte anche gli stessi cattolici sembrano divisi…
Basterebbe riprendere il Vangelo in mano e ricordarci che anche Gesù è stato migrante. Se prendo sul serio la mia fede ogni volta che vedo un fratello, non importa chi sia e da dove venga, so che la regola del rapporto con lui me la dà il Vangelo. A volte invece siamo opportunisti. Mi è capitato d’incontrare persone schierate contro l’accoglienza dei migranti, ma poi disponibili a mettere a disposizione strutture per avere i fondi per l’accoglienza. La Chiesa deve trovare il coraggio di una marcia in più. Il povero è sacramento di Cristo e senza questo legame profondo con il povero anche la nostra Eucarestia è vuota e senza Eucarestia non c’è Chiesa.

Il papa ci sta mettendo davanti la Chiesa di strada, la Chiesa ospedale, la Chiesa dei poveri. La Chiesa è fatta da una maggioranza di poveri, ma chi decide per loro? Noi, i ricchi. È chiaro che qualcosa deve cambiare e il Vangelo ci indica la strada.

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