Melancholia

Il nuovo film di Lars von Trier sospeso tra racconto metaforico e riflessione morale
Melancholia

Il crescendo spasmodico del preludio del wagneriano Tristano e Isotta ha un suono tortuoso come l’amore impossibile. Qui si fa espressione della salvezza impossibile. Amore e salvezza si corrispondono e si richiamano, perchè l’amore è o può essere salvezza. Le note wagneriane sono il leit motiv dell’ultimo film di Lars von Trier, racconto metaforico, riflessione morale sul male del mondo (“la terra è cattiva”), sulla illusione della scienza di cogliere la verità (il pianeta Melancholia che sembra sparire e invece inghiotte la terra) e sulla necessità di una fine che può essere duplice. O chi fa della scienza la  fede si uccide davanti al fallimento della propria sicurezza, oppure non resta che affratellarsi, piccoli e grandi (due sorelle e un bambino) sotto uno steccato. Protezione fittizia, ma almeno offre l’illusione di entrare insieme a morire o a vivere in un’altra dimensione. Più possente, terribile. Ignota.

 

Un pessimismo cosmico aleggia su questa metafora scultorea che ricorda certo ultimo Leopardi o un certo nichilismo romantico da cui il regista è tentato. Nel disprezzo di una società persa in riti fasulli e ipocriti – un matrimonio, una festa, un lavoro, i soldi –, gli esseri umani (le due sorelle, nel caso) vivono in una tristezza ineluttabile. Dio è scomparso sotto l’orizzonte, non se ne parla nemmeno. Forse il tremendo pianeta Melancholia è Dio stesso? Un Dio immenso e triste come sono tristi gli uomini? La depressione, malattia contemporanea, ma anche tipicamente romantica,di cu i soffre Justine (una straordinaria Kirsten Dust) regna su una terra esteriormente splendida, guardata da un universo infinito che rende le creature rigide e glaciali. Prive di amore. Tranne il ragazzino ingenuo e immerso nei sogni.

 

Grandioso, poetico, onirico e struggente nei dialoghi e soprattutto nei primi piani dei volti, vasto come una sinfonia mahleriana che guarda contemporaneamente indietro ed in avanti, il film è forse un pensiero filosofico sul nascondimento di Dio e sulla impossibilità dell’amore, se non verso gli innocenti. O forse è la paura di venire inghiottiti da Lui? Per questo von Trier divide, come spesso succede, la critica. Ma forse questo resta il suo film più intenso, ricco e meditato. Un abisso di dolore, da cui si può fuggire solo lasciandosi divorare dalla realtà che vi sta oltre?.

 

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