Cinquant’anni fa usciva al cinema uno dei più grandi successi di sempre: Lo squalo di Steven Spielberg. Oggi, per l’occasione, un buon documentario lo celebra: The Jaws@50: The Definitive Inside Story, disponibile su National Geographic e visibile sulla piattaforma Disney+.
Jaws come fauci, mascelle. Jaws com’era il titolo originale del film che superò, per la prima volta nella storia, i 100 milioni di dollari al botteghino.
Tratto dal romanzo di Peter Benchley, di appena un anno precedente al film, Jaws avrebbe potuto far deragliare la carriera dell’allora giovane regista americano. Invece la fece decollare, seppure produsse, nel ventisettenne Stevie, uno stress enorme con incubi e attacchi di panico, Ci volle tempo per superarli. Ci riuscì anche rifugiandosi sulla barca, L’Orca, sopra la quale buona parte di Jaws era stato girato.
Veniva dall’inquietante e potente Duel, Steven Spielberg: un film che in fondo, ricorda lui stesso, intervistato nel documentario insieme a “mezzo” cinema americano, poteva essere il primo capitolo di un dittico: «Lo squalo per certi versi era il sequel di Duel», spiega il regista, visto che in entrambi i film c’è «un colosso», una sorta di leviatano, una creatura sovrumana e misteriosa che punta a distruggere la normalità.
Nel primo film «era un colosso sulla strada che tenta di far fuori un venditore», aggiunge il cineasta; nel secondo è «un colosso del mare che vuole far fuori un resort». In realtà si tratta di un’intera isola: un luogo di benessere sociale ed economico, lo spazio ideale del mondo occidentale in vacanza, con l’euforia turistica, i traghetti stracolmi, le spiagge festanti e i grandi interessi economici in ballo.
Ecco, allora, dentro Jaws, uno dei temi poi centrali in Spielberg: l’uomo normale, comune, in circostanze straordinarie. L’eroe che può nascondersi, dormiente, in ciascuno di noi. Nel film è Martin Brody, interpretato – in modo indimenticabile – da Roy Scheider. E’ uno sradicato, un padre prudente, un saggio timoroso, un poliziotto di New York costretto a vivere circondato da un mare che non ama.
Eppure, chiamato alla responsabilità, «l’eroe riluttante» mette il dovere sociale oltre le emozioni, persino oltre la famiglia (intesa come orto privato) e si dirige, per il bene dell’intera comunità, decisamente fuori casa, lontano da ogni comfort zone, ad affrontare la creatura che simboleggia l’ignoto, la natura incontrollabile e superiore, le nostre paure più grandi e inafferrabili.
Quell’animale che per buona parte del film nemmeno vediamo e rappresenta l’antico, il primigenio, quel profondo sconosciuto che minaccia la modernità capace, o probabilmente solo illusa, di poter controllare tutto.
Brody affronta questo tema più che mai attuale (c’è anche quello della politica che nasconde la realtà quando scomoda) insieme ad altri due personaggi: due individui agli antipodi ma anche no. Uno odia gli squali: il Quint di Robert Shaw. L’altro li ama: il Matt Hooper di Richard Dreyfuss. Entrambi ne sono ossessionati, attirati irresistibilmente. Il primo con l’istinto, la pancia, la rabbia, anche per un precedente vissuto direttamente: una storia di squali da cui nasce il monologa più straordinario del film, quello sulla Corazzata Indianapolis. Il secondo agisce con la scienza, la ragione, gli strumenti tecnologici e la conoscenza sui libri.
In mezzo ai due, uno proletario e l’altro borghese, che litigano di giorno ma di notte, con un bicchiere in mano in preda al mare nero, trovano affinità e complicità sottili, c’è un uomo solo, piccolo e grande, spaurito e coraggioso. Nella terra ingovernabile, instabile, aliena e pericolosa, in cui ci vorrebbe – anche qui simbolicamente – «una barca più grossa», lottano in tre contro la diversità più emblematica, senza appigli di sicurezza, disposti a perdere tutto, forse anche per smettere di aver paura e di farsi tormentare dall’ignoto.
Alla fine, come il mainstream americano ci ha insegnato a lungo, sorge un faticosissimo e molto liberatorio happy end. Di questo finale, come della locandina e della scelta del titolo, della genesi del film e delle memorabili note di John Williams, come dei problemi tecnici col fantastico squalo di gomma meccanica, del tema della «casa» scovabile qua e là in Lo squalo, di come il film non venne letto al meglio inizialmente dalla critica, e di diverse altre sfumature di questo gioiello iconico che sconvolse Hollywood, parlano gli intervistati.
Tanti, giganteschi. Molti registi: JJ Abrams, George Lucas, James Cameron, Steven Soderberg, Cameron Crowe, lo stesso John Williams, e poi l’attrice Emily Blunt, grande fan di Jaws, tra i vari. In un repertorio compare Quentin Tarantino che usa l’aggettivo “perfetto”, per Lo squalo, e in un altro spunta Martin Scorsese.
Ci sono, però, anche i biologi e gli esperti scientifici di squali, a ricordare ciò che inizialmente il film produsse: un’immagine distorta e negativa di questi straordinari e antichi pesci. Un atteggiamento sbagliato e dannoso che però, col tempo, aggiungono gli studiosi, si è trasformato in attenzione nuova, sguardo appassionato ma protettivo, non più superficiale e istintivo. Non più nocivo.
È l’approfondimento finale di un documentario ricco di materiali inediti e guidato dalla testimonianza corposa e intensa dello stesso Spielberg. Un omaggio affettuoso, in qualche modo doveroso, a quel film che, girato magistralmente, ha cambiato la storia del cinema, nel linguaggio e non solo. Un film che ha superato i suoi confini ed è entrato, come poche altre pellicole al mondo, nella cultura pop, nel costume e nell’immaginario di generazioni di spettatori. Jaws. Lo squalo.