Lo scoglio del fiscal compact

Intervista all’economista Rosa Albanesi, direttrice del laboratorio di economia civile Avolab, sulla legge di stabilità, il Sud e le possibili leve contro la recessione
Lavoratori della Fiat di Termini Imerese

La discussione in Parlamento sulle misure della legge di stabilità proposta dal governo Letta entra nel merito di scelte destinate ad incidere sul presente e sul futuro degli italiani. Come molti hanno fatto notare, anche una misura, come il “sostegno inclusione attiva”, annunciata come storica dal ministro del Lavoro Giovannini, per dare una prima risposta all’aumento vertiginoso del tasso di povertà, non è stata accolta nel testo finale dell’esecutivo che sappiamo vincolato al fiscal compact e cioè all’impegno di applicare il trattato europeo, ratificato a luglio del 2012, che obbliga l'Italia a tagliare 45 miliardi di debito pubblico all'anno per 20 anni.

Abbiamo chiesto il parere di Rosa Albanesi, docente di Politica economica all’Università statale di Messina e direttrice scientifica del laboratorio di economia civile Avolab alla vigilia della tre giorni di manifestazioni pubbliche in programma a Palermo dall’8 al 10 novembre.   

Gli economisti del sito lavoce.info non hanno usato mezzi termini per definire il provvedimento del governo Letta «una cura omeopatica per un malato grave» lamentando il mancato affievolimento della pressione fiscale sul lavoro. Ma cosa può fare, in effetti, un governo che ha accettato il fiscal compact?
«Direi ben poco. È evidente che siamo intrappolati in una spirale in cui sono le famiglie e le imprese a dover sostenere interamente il peso di tale manovra che taluni considerano iniqua. Lo Stato, infatti, è indebitato pesantemente e necessita di risorse per finanziare una spesa pubblica che, se ben gestita, potrebbe risollevare le sorti del Paese. Ma il problema risiede nella possibilità di finanziamento della medesima, fortemente condizionata dal fiscal compact, e quindi nel ricorso allo strumento dalla leva fiscale, che, gravando su famiglie e imprese, deprime la capacità di spesa proprio di quei soggetti che potrebbero innescare un’inversione di tendenza. D’altra parte occorre riflettere su cosa ad un governo di tale natura sia consentito fare; mentre stabilità e condizioni normali, di cui siamo privi, sono gli indispensabili presupposti per avviare le necessarie riforme.Tuttavia se siamo giunti a questo punto nessuno può essere considerato privo di colpe. E non mi riferisco alla politica, nella quale siamo stati abituati a riporre una fiducia forse eccessiva, quanto piuttosto a ciascuno di noi, che continuiamo ad operare sulla base dell’interesse personale piuttosto che sul mutuo vantaggio. Per cui un ovvio senso di responsabilità risulta doveroso, altrimenti il piangersi addosso è pura ipocrisia».

Quali leve di politica economica andrebbero usate per invertire la tendenza verso la recessione?
«Posto che, come autorevoli economisti hanno suggerito, occorrerebbe rinegoziare i parametri fissati in sede europea per dare fiato alla spesa pubblica e che vi sono ancora ampi margini di intervento sul fronte della spending review, c’è da valutare l’incidenza della tassazione su lavoro, imprese e rendite finanziarie. Perciò, mentre servirebbe ridurre il peso che grava su lavoro e imprese, rilevanti ed indispensabili risorse potrebbero provenire proprio dalla tassazione delle rendite finanziarie e questo per una ragione di fondo che evidenzia la contrapposizione tra attività produttive ed attività speculative ed improduttive, in un contesto in cui siamo chiamati a dare dignità e fiducia al mondo dell’impresa e quindi del lavoro. Per troppo tempo, infatti, si è trascurato il ruolo sociale e civile dell’impresa, si è confuso l’imprenditore con lo speculatore e si è contrapposto il lavoro all’attività imprenditoriale; invece l’imprenditore rischia le proprie risorse per creare beni e lavoro e ciò è sufficiente per sostenerlo».

Quindi?
«Le nostre possibilità di ripresa transitano anche per un’economia di mercato più democratica in cui ci sia spazio per le forme di impresa sociale e civile, oltre che quella capitalistica; per un sistema di welfare in cui enti pubblici, imprese e società civile organizzata imparino a co-operare (cosiddetta sussidiarietà circolare). Mentre rimane sempre valido il ruolo dell’innovazione e soprattutto gli indispensabili investimenti da destinare a scuola e università, alle quali si richiede però un serio impegno produttivo».

Con uno sguardo al Sud e partendo dal caso di Termini Imerese, con lo stabilimento Fiat ormai chiuso e l’ultima cassa integrazione che finisce a giugno, quali interventi sono ormai indispensabili per evitare il completamento della desertificazione industriale e sociale, con l’emigrazione descritta nell’ultimo rapporto Svimez?
«Penso che ci sia un errore di fondo negli interventi a sostegno dello sviluppo del Mezzogiorno, ovvero l’aver puntato su processi di industrializzazione che non hanno tenuto conto delle risorse umane e delle caratteristiche vocazionali (cultura, arte, territorio e turismo) delle regioni meridionali; in altri termini quella tradizione locale in cui è insita una certa capacità di affermarsi nella concorrenza internazionale e che ormai costituisce un percorso obbligato. Le potenzialità da scoprire e valorizzare derivano poi anche dai progetti dei giovani ai quali abbiamo il dovere di prestare grande attenzione e cura, sia sul fronte della formazione che su quello dell’educazione, per evitare che il loro prezioso entusiasmo vada perso o peggio venga sopito da una realtà a volte sonnolenta, se non addirittura distratta nei loro confronti e rassegnata in genere. Si pone infine la necessità di imparare a costruire e dotarsi di nuovo capitale sociale di cui il Mezzogiorno è sprovvisto e che risulta la causa originaria del mancato aggancio allo sviluppo».

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