La crisi economica in Ecuador si sta trasformando in crisi istituzionale. Dalla protesta di piazza – che purtroppo ha avuto anche derive violente, con alcuni morti negli scontri con le forze dell’ordine – si è passati alla mozione di destituzione del presidente Guillermo Lasso, che è in agenda al Parlamento. Uno dei principali attori di questa protesta è la Confederazione che unisce i popoli indigeni del Paese (Conaie) – il 70% della popolazione ecuadoriana si riconosce come meticcia e il 21% appartiene a diverse etnie –, che è scesa in piazza contro l’aumento del prezzo della benzina e per la mancanza di accesso a servizi di base come sanità, casa, pensioni.

(AP Photo/Dolores Ochoa)
Che la crisi sia grave non ci sono dubbi: il 39% della popolazione vive in condizioni di povertà, che si sono accentuate nell’ultimo anno con l’aumento del costo della vita, ma che erano già critiche da tempo. L’Ecuador, tra l’altro, non possiede una moneta propria ed usa il dollaro statunitense, per cui il rincaro dei prezzi in questa divisa si riflettono direttamente nelle tasche delle famiglie. Lo scontento è notevole anche perché le ricette applicate in questi anni non hanno dato i risultati attesi, oscillando ideologicamente dallo statalismo di Rafael Correa, al ritorno al liberismo dei governi che si sono succeduti dopo, come quello attuale retto da un ex banchiere.
La Conaie ha presentato 10 punti, chiedendo maggiori controlli sui prezzi ed un intervento più sostanzioso in aree come la sanità, la scuola e la creazione di posti di lavoro, visto il dilagare dei settori informali per mancanza di alternative. La protesta è stata accompagnata da presidi alle principali vie di comunicazione, mettendo in crisi il sistema di approvvigionamento dei beni, e dalla distruzione di beni pubblici e privati. La violenza ha suscitato la reazione di una parte della cittadinanza, che ha rigettato tali metodi. Ci sono stati anche scontri tra civili.
La risposta del governo è stata la mano dura. È stato decretato lo stato di eccezione costituzionale e imposto il coprifuoco in sei provincie. La militarizzazione della Casa della Cultura della capitale, Quito, utilizzata dal movimento indigenista come punto di incontro, ha ricevuto forti critiche, come pure l’arresto del leader indigeno Leonidas Iza. Il governo ha riconosciuto di non aver prestato sufficiente attenzione alla criticità della situazione, specie nel settore della sanità dove ha promesso interventi. L’esecutivo si è anche impegnato a contenere i prezzi dei combustibili e di alleggerire il peso dei debiti di chi ha dovuto ricorrere ai prestiti per fronteggiare la crisi. La Conaie continuerà con la protesta se il governo insisterà con la mano dura e lo stato d’eccezione. Sarà difficile calmare gli animi senza il necessario dialogo tra le parti. In parlamento, una quarantina di deputati dell’opposizione ha promosso una mozione di destituzione del presidente che sarà ora oggetto di discussione. Lasso non ha una maggioranza ed ha rotto alcune alleanze che sostenevano il suo esecutivo. Ad ogni modo, pare difficile che la mozione possa andare avanti, avendo bisogno di un quorum elevato.

Resta il problema di fondo di come affrontare la crisi. Le ricette applicate negli ultimi 15/16 anni hanno oscillato tra lo statalismo e il neoliberismo, facendo alternativamente leva sull’intervento pubblico –necessario dove lo Stato è poco presente – o sul mercato. Ma senza in fondo promuovere una cooperazione strategica tra pubblico e privato. Sebbene la Costituzione assegni un ruolo all’economia sociale, questa è spesso intesa come alternativa al mercato e non come forma per umanizzare questo ambito irrinunciabile della vita economica. Un patto sociale e politico sarebbe indispensabile, ma in tal caso il punto di partenza dovrebbe essere quello di far convivere visioni diverse attorno a valori fondamentali, rinunciando alla demonizzazione dell’avversario. Un male, quest’ultimo, che non è di casa solo in Ecuador.
Da anni in Sudamerica si assiste ad una polarizzazione che non ha niente di sensato, il cui risultato è quello di alternare governi di matrice neoliberista che si affidano ciecamente al mercato, magari riducendo la spesa pubblica a scapito di servizi essenziali con l’effetto di accrescere le disuguaglianze, a governi statalisti – spesso di sinistra –, che fanno leva quasi esclusivamente sull’intervento dello Stato ma portando la spesa pubblica a livelli insostenibili.
In entrambi i casi, si rinuncia a conciliare mercato e giustizia sociale nella prospettiva di preservare il bene comune. I ricchi temono i governi di sinistra e fanno leva sullo spauracchio dell’espropriazione dei loro beni, che non avviene in nessun caso, sostenuti dai media spesso da loro controllati. Ma fanno finta di non sapere che l’America Latina è una delle regioni del mondo dove si pagano meno tasse su utili e patrimoni (tra il 4 ed il 6%). I governi di sinistra, dal canto loro, insistono nel demonizzare il mercato e l’imprenditoria, impedendo un dialogo indispensabile per stabilire un patto sociale che voglia favorire sia la crescita che la ridistribuzione del reddito. Nè le colpe nè le ragioni saranno mai da un solo lato politico. Un principio semplice, ma che pare non sia facile da comprendere.
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