Nello scorso marzo 2025 il governo ha licenziato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne che affronta il grave e crescente problema di spopolamento delle zone interne, e che intende fornire le linee guida per predisporre e attivare interventi mirati, che rispondano alle specificità di ciascun territorio e promuovano il benessere delle persone, anche attraverso l’armonizzazione delle risorse e delle normative esistenti.
Le aree interne a livello nazionale sono 115, a cui se ne aggiungono ulteriori 13 individuate dalle Regioni. Complessivamente comprendono 3.834 comuni, pari al 48,5% del totale italiano, quindi sono una parte rilevante del Paese.
Il piano prevede un approccio integrato con le misure previste per rafforzare la competitività e la resilienza delle regioni, ma, forse a causa dell’approccio scientifico utilizzato, ha portato ad alcune conclusioni decisamente troppo drastiche per un documento politico. In fondo a pagina 45 si descrive un obiettivo intitolato “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”, che prevede di «progettare un piano mirato che possa assistere tali comunità in un percorso di cronicizzato declino».
Ne sono scaturite reazioni di sdegno, iniziative e appelli da parte di sindache e sindaci, persone e associazioni di varie parti d’Italia. La frase sembra esprimere l’esatto contrario di una politica che s’impegna a “buttare il cuore oltre l’ostacolo” e che cerca ogni soluzione per impedire il declino, anche di una minima porzione del proprio territorio, investendo risorse per ridurre le carenze strutturali e di sistema in quegli stessi territori. Il passaggio è parso improntato ad una cultura dello scarto, piuttosto che sviluppato col criterio della tutela delle comunità più fragili.
Anche i vescovi dei territori interessati (una trentina in rappresentanza di 11 regioni d’Italia) si ritroveranno il 25 e il 26 agosto a Benevento per il quinto convegno annuale sulle aree interne con l’intervento del cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. L’iniziativa nata dalla proposta del vescovo di Benevento, Felice Accrocca, si concluderà con una lettera aperta rivolta al Governo e al Parlamento per ribadire l’impegno ad arrestare una fine che appare per molti già segnata.
Ne abbiamo parlato in questa intervista a Davide Carlucci, presidente della rete Recovery Sud, che ha promosso durante il lungo mandato di 10 anni come sindaco di Acquaviva delle Fonti (BA). Sulla questione Carlucci, giornalista professionista, ha anche scritto il libro La rivoluzione del Sud, perché il Mezzogiorno può cambiare l’Italia, pubblicato da Rubettino Editore. Un testo ideato per raccontare un Sud che reagisce alla marginalizzazione e all’impronta “coloniale” di certe politiche nazionali.
Quale rivoluzione sta compiendo il Mezzogiorno d’Italia?
Quello che il governo vuol far passare quasi come destino ineluttabile, la scomparsa dei piccoli Comuni delle aree interne, non lo è affatto. Lo dimostra da un lato la vitalità che hanno dimostrato i Comuni, soprattutto del Sud, che a partire dalla seconda decade degli anni Duemila, hanno dato vita a numerose reti, dai Borghi autentici d’Italia ai piccoli Comuni del Welcome; dalla Rete dei Comuni Sostenibili fino alla Rete Recovery Sud. Quest’ultima, in particolare, ha visto i piccoli Comuni particolarmente attivi nell’elaborare proposte e strategie che potessero aiutare i governi a calibrare meglio gli interventi del PNRR. Una ricchezza progettuale maturata in anni di tentativi di rivitalizzare comunità sulla via dello spopolamento, anche attraverso l’accoglienza dei migranti e/o la valorizzazione delle biodiversità agricole e culturali e delle produzioni tipiche. Una tenace volontà di sopravvivere all’azione congiunta dell’urbanizzazione e della concentrazione economica nelle aree forti del centro-nord, di cui parlo nel libro La rivoluzione del Sud.
Quindi tante aree interne dimostrano vitalità e dinamismo?
Roma non ha saputo cogliere, nella fase di stesura del piano, questa forte domanda di sviluppo dal basso che proveniva dalle comunità delle aree interne, in particolare meridionali, che hanno elaborato in questi anni strategie per attrarre imprese e giovani ricercatori o professionisti, anche attraverso la cosiddetta pratica del South Working. Ma non necessariamente le strategie di rivitalizzazione delle aree interne sono destinate al fallimento, come purtroppo è successo in Italia. Basti guardare all’esempio della vicina Francia, dove l’Agenda Rural cerca di dare una risposta ai problemi che riguardano 22 milioni di abitanti residenti nell’88% del territorio nazionale, con problemi molto simili ai nostri, a cominciare dalla desertificazione medica e sanitaria, la mancanza di collegamenti, la difficoltà di fornire servizi basici come l’istruzione. Anche lì c’è scetticismo sull’efficacia delle misure da parte dei sindaci. Ma quanto meno lì il governo un piano lo ha varato. E prevede 181 misure pensate per contrastare il senso di abbandono avvertito nelle aree più lontane dai servizi pubblici. E il programma Piccole Città di Domani ha contribuito a rivitalizzare i centri storici di 1646 Comuni, incoraggiando gli insediamenti industriali nei territori rurali.
In Italia invece proprio non si riesce a concepire un vero piano di sviluppo?
L’istituzione di una zona economica speciale (ZES) unica in tutto il Mezzogiorno va addirittura nella direzione opposta, perché spalmando su tutto il territorio gli incentivi, non incoraggia in alcun modo le aziende a preferire aree diverse dai capoluoghi o dalle altre realtà urbane, nelle quali già vi sono concentrazioni di servizi e di imprese che possono rendere maggiormente attrattivi gli investimenti.
Sarebbe necessaria, invece, una pianificazione più mirata, che studi ciò che già esiste nei piccoli Comuni meridionali (mi viene in mente l’esempio di Poggiorsini, nel pieno della Murgia Barese, dove ci sono già un avviato stabilimento di acqua minerale e un birrificio) e orienti gli investimenti della ZES, in modo tale che possano creare economie di filiera connesse con le realtà produttive già esistenti.