L’indignazione per il fertility day e l’indifferenza per i bimbi sfruttati

Sfogliare un magazine di costume con i più piccoli al centro delle pubblicità di abiti di lusso, mentre in Italia si manifesta nelle piazze per una campagna mediatica riuscita male e non si protesta per la mancanza di lavoro, i salari bassi, l'emarginazione sociale. Una riflessione dalla nostra corrispondente dagli Stati Uniti d'America
Nel gioco i bambini imparano le regole e a stare con gli altri

Le polemiche che imperversano sulla campagna per il Fertility day ideata dal ministro Lorenzin e sulle pubbliche manifestazioni che ne sono seguite non intaccano gli investimenti in pubblicità sui prodotti di lusso per i bambini. I target sono sempre gli stessi genitori che su questi temi non scendono in piazza.

 

Nel giorno delle manifestazioni nazionali contro il Fertility day mi sono trovata a sfogliare il supplemento settimanale di un noto quotidiano italiano, dono di un amico appena atterrato a New York. Le prime dieci pagine di pubblicità, che precedevano il sommario, non erano popolate da modelle e modelli glamour con in mano profumi o rossetti o in abiti succinti e sorrisi da macho. Stavolta c’erano bambini e bambine. Le pagine straripavano di brigate colorate, gruppi composti, ritratti di singoli: un vero catalogo di alta moda per piccoli. Le più prestigiose firme del made in Italy giganteggiavano a fianco o sopra la combriccola festosa o gli eleganti baby single. L’invito rivolto a genitori e parenti era chiaro: ora è tempo che anche i vostri pargoli siano glamour a par vostro.

 

Mentre in mano reggevo il magazine-catalogo, sulle tv italiane imperversavano folle esacerbate di donne e uomini, per una poco elegante campagna mediatica, che invitava a dar vita proprio a nuovi bebè che a breve sarebbero stati birichini, compìti, sorridenti, magari firmati da capo a piedi come quelli che ammiccavano tra quelle pagine. Il tema di rivista e tv è lo stesso: bambini. Non lo sono le reazioni. Bambini che nascono sempre meno sono oggetto di polemiche e bambini nati sono invece oggetto delle attenzioni più glamour. Sui primi la pubblicità ha fallito chiamando in causa la responsabilità, sui secondi invece ha fatto centro regalando l’emozione apparente di appartenere ad un mondo chic, purtroppo distante per tanti. Che geniali i creativi e che inesperti i politici. Non voglio gettare ombre su professionisti della moda che contribuiscono in maniera sostanziosa al Pil del Paese e alla sua fama nel mondo e neppure sulla qualità e sui prezzi di queste creazioni.

 

Rifletto invece su un mercato che ha intercettato nei bambini una delle principali voci di spesa attive della nostra società e ha puntato su di loro o meglio sulle loro famiglie per aprire nuovi canali di vendita. Per farlo ha ideato geniali campagne che prospettano un mondo bello e alla moda per i propri figli con un risultato vincente. E questo senza che si sia levata alcuna protesta sui bambini utilizzati come modelli o calamite del consumismo. E non si protesta neppure per il fatto che solo una magra percentuale di italiani avrà in banca la cifra necessaria per trasferire sui propri figli quei capolavori di artigianato. A tutti gli altri i soldi serviranno per i libri ministeriali, i fogli e la carta igienica, le cure odontoiatriche.  

 

Mi interroga la poca ragionevolezza che anima oggi il nostro Paese che scende in piazza contro una pubblicità che incoraggia – è vero, con un linguaggio non brillante – a pensare ad un suo futuro e ad investire sul futuro e non protesta invece per gli stipendi ineguali delle donne, per le poche garanzie sul loro lavoro, minacciato quando scelgono la maternità. Non si protesta per la solitudine delle madri e dei padri, soli e impreparati al nuovo che irrompe nella loro vita. Ci si arrabbia in privato e non pubblicamente per i servizi che le famiglie pagano e di cui non usufruiscono. E non si manifesta neppure per quei bambini vittime di sfruttamento e violenza come la piccolo Fortuna, per quelli che non vanno ancora a scuola come Antonio perché papà è in carcere, o per Alì di otto anni che vaga in stazione con i suoi genitori iracheni. Non si protesta neppure per tutti quelli che hanno l’eleganza glamour, ma non hanno una famiglia, perché i genitori sono troppo occupati a riempirli di vestiti e non di altro. E si sta in silenzio anche davanti a chi non nasce e si sceglie di non far nascere per migliaia di ragioni o di non ragioni.

 

Non c’è abbastanza consapevolezza di cosa un calo demografico importante come quello a cui stiamo assistendo comporterà per l’Italia non solo in termini di pensioni – e questo già ci dice che siamo invecchiati, se è l’argomento di punta -, ma anche sulla creatività e l’innovazione che fanno grande un Paese, talenti che passano inevitabilmente dalle nuove generazioni. Siamo troppo concentrati sulla pubblicità.

 

Pensare ed essere ragionevoli invece sembra essere diventato un difetto perché a governare sul web e fuori dal web, è l’emozionalità o l’emotività viscerale che ha come unico risultato la paralisi della realtà vera e degli indispensabili progetti sociali e politici di cui c’è urgenza. E se la politica non ce la fa a farci emozionare di fronte ad un bimbo, come han saputo ben fare i nostri creativi sulle pagine del settimanale, ben venga che scendano in campo, perché la pubblicità che suscita bellezza e gusto della vita può suscitare anche pensiero positivo e voglia di futuro: di entrambi c’è assoluto bisogno. E non solo sulle pagine patinate.

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