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L’incubo del Mediterraneo

a cura di Candela Copparoni

- Fonte: Città Nuova

Molte persone si vedono forzate a lasciare la propria terra per proteggere la loro vita. Il rischio che si corre è troppo alto, ma equivale a quello di restare. In occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra il 29 settembre pubblichiamo l’articolo apparso su Città Nuova n. 9/2024

Abou Talha. Illustrazione di Marta Signori

Mi chiamo Abou Talha, vengo dal Niger e sono il più piccolo di 7 fratelli. La mia vita nel mio Paese era buona, ho studiato in una scuola coranica, perché papà era musulmano molto praticante, e ho imparato a nuotare: andavo sempre in piscina da ragazzino o al lago che avevamo vicino. Stavo molto bene, fino alla morte di mio babbo… poi tutto è cambiato.

Mio padre aveva 4 mogli, e da quando è venuto a mancare ci sono stati dei problemi familiari legati all’eredità. Io sono il figlio che lui amava più di tutti… Ho litigato coi miei fratelli e sono dovuto scappare dalla mia terra perché ho capito che la mia vita era in pericolo. Avevo tutti i documenti in regola e tanti parenti che lavorano nel governo che mi avrebbero potuto aiutare affinché arrivassi in Europa attraverso una via sicura, ma mio fratello aveva preso la mia macchina e l’aveva buttata con dentro tutti i miei documenti. Non potevo restare neanche un giorno in Niger perché rischiavo di morire.

Mia madre mi ha detto: «Vai!». Ho preso subito la decisione di partire. Ho contattato un mio amico che stava lavorando in Libia e ho pensato di raggiungerlo. Allora non conoscevo niente della Libia, e lui non mi aveva detto che la situazione lì è pericolosa. Mi sono reso conto che eravamo in pericolo sulla strada, nei tre giorni di viaggio nel deserto. Sebbene io sia partito da solo, eravamo in molti, perché le persone vengono caricate in un pulmino ammassate come animali.

Una volta arrivato in Libia, il mio amico è sparito: non rispondeva alle mie chiamate e non ci siamo mai più visti. Ho pensato che mi avesse mentito, perché non mi aveva accennato ai molteplici problemi che esistono nel Paese. In Niger non ci fanno vedere quello che succede lì, anche perché ci sono delle problematiche interne: la guerra, questioni politiche, risse familiari che a volte sono peggio della guerra stessa, tensioni legate al tema dell’eredità e la persecuzione dell’omosessualità.

Il fatto è che, arrivato in Libia, ho cominciato a lavorare in campagna. Lì non si cammina per strada, soprattutto se sei nero. Gli abitanti di questo territorio sono in difficoltà economiche perché non c’è lavoro, per cui se ti vedono è come se vedessero oro: ti prendono subito, ti menano, chiamano la tua famiglia e le chiedono soldi per il riscatto, che non sono mai abbastanza… Molti non ce la fanno. Per questo motivo, i migranti provano ad entrare a lavorare nei campi appartenenti agli arabi, in modo da ricevere protezione dal proprietario.

C’è un’area dove i proprietari arabi scelgono e raccolgono i ragazzi che lavoreranno i loro campi. Per 6 mesi ho servito uno di loro senza mai essere pagato. In due occasioni mi sono fatto avanti per chiedere dove fossero i miei soldi, ma la sua unica risposta è stata: «Stai zitto». Era armato e non aveva nessuno che lo controllasse. Tuttavia, è grazie a lui che oggi sono in Italia. Io volevo tornare nel mio Paese, ma lui mi ha consigliato di non farlo: una volta in Libia, è più facile venire in Europa che tornare indietro; i trafficanti ti lasciano a piedi nel deserto e, se non trovi aiuto, rischi di morire. Senza che glielo chiedessi, quell’arabo mi ha portato da un suo amico e mi ha mandato qua, facendo la traversata nel Mediterraneo.

Non avevo mai pensato che un giorno sarei venuto in Italia. L’ho fatto perché non avevo altra scelta: è stata una decisione obbligata. Non conoscevo nessuno in Europa e non consiglio a nessuno di venire qua, è troppo pericoloso. Sul barcone non c’è nessuno che ti accompagna, ma è uno di noi a guidarlo. C’è sempre qualcuno che dice di saperlo fare, perché in questo modo gli danno una mappa e lui viaggia gratis.

Siamo partiti a mezzanotte e siamo stati in mare fino alle 2 del pomeriggio. A quel punto abbiamo visto un elicottero sopra di noi: se non fosse arrivato, 5 minuti dopo saremmo morti tutti. Il nostro barcone era bucato e il motore non funzionava. Sotto, nella base, c’era un legno che si staccava, stavamo affondando. Avevamo l’acqua fino al collo ed eravamo in più di 100 lì dentro. Di noi, 63 sono morti durante questa traversata. C’erano anche i bambini.

Croci sul luogo del naufragio a Steccato di Cutro. Cutro, Crotone, 9 marzo 2023. ANSA/CARMELO IMBESI

C’è una cosa che non dimentico e che mi ritorna ogni volta a modo di incubo, turbandomi mentre dormo: una donna aveva due figli e stava cercando qualcuno più alto di lei perché li prendesse, ma nessuno voleva aiutarla. Ho preso uno dei bambini in braccio, sulla testa, ma sono stato spinto e sono caduto fuori dall’imbarcazione. Nessuno mi ha aiutato. C’era vento, pioveva. Saranno passati tre minuti, il tempo di riuscire a tornare nella barca e ho trovato i bambini già morti, si è salvata solo la madre.

Allora i soccorritori hanno portato un’altra nave con cui ci hanno fatto approdare a Trapani, in Sicilia. Sono rimasto lì per due settimane, poi ho trascorso un mese a Bologna. Solo allora ho potuto chiamare mia madre per raccontarle che ero vivo! Ci sentivamo spesso mentre ero in Libia… lei mi diceva di tornare a casa e di sistemare la situazione coi miei fratelli mediante il dialogo. Da Bologna sono passato a Misano Adriatico, dove sono rimasto un altro mese. Alla fine sono arrivato a Rimini, dove insieme alla Cooperativa Sociale Metis ho compilato i documenti per richiedere l’asilo politico. Sono stato accettato e ho avuto il permesso di soggiorno.

Durante i primi 6 mesi ho lavorato come lavapiatti. Poi, il mio capo ha capito che ero bravo e ho iniziato a lavorare come aiutante cuoco. Sono andato a scuola per un paio di mesi, ma è soprattutto al lavoro che ho imparato l’italiano. Adesso da 5 anni sono in Italia e faccio il carpentiere. Per quanto riguarda la casa, ho chiesto aiuto al progetto SPRAR della Caritas. Ho fatto un primo anno con loro e poi mi hanno permesso di rimanere un secondo anno. Non riuscivo a dormire bene, perché la mia camera era attaccata alla cucina, per cui sono voluto andare via. Mi hanno aiutato a trovare casa e a pagare metà dell’affitto.

È così che ho conosciuto Giuseppe Malerba, già consigliere comunale e assessore alle politiche sociali, sanitarie ed educative a Verucchio, e mi sono trasferito a Villa Verucchio, dove attualmente vivo con degli amici del Mali e della Guinea: Mohammed e Mussa. Siccome adesso siamo in due a condividere la stanza, sto cercando un’altra casa, ma devo dire che nel complesso ora mi sento bene in Italia e penso che rimarrò qui.

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