Tutto comincia con la parodia del film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio: non è un ominide a lanciare la clava, ma le bambine con le bambole a infrangerle per far uscire la nuova donna, Barbie, bionda bella e sorridente. E così piace il lavoro diretto con amore ed astuzia da Greta Gerwing. Tanto. La storia in sé è di una semplicità disarmante. La bambola più famosa del mondo, osannata nel gineceo fantasioso di Barbieland dai vari Ken di turno – plastici giovanotti inconsistenti – decide di scendere verso il mondo reale. Da sola, per “provare” cosa sia l’umanità, lei che è la tipica donna-oggetto-vetrina. Ma il Ken di turno – biondo platino, muscoloso e mentalmente poco sviluppato (un bravissimo Ryan Gosling) – si fa trovare a sorpresa nella sua auto. Così comincia l’avventura nel mondo reale. Ken scopre la mascolinità, il gusto del patriarcato in stile cowboy che domina le donne, lei incontra l’amministratore delegato della ditta Mattel che la produce e che la insegue volendola riportare nel limbo dorato di cieli azzurri artificiali e di balletti rosa in puro stile musical. L’inseguimento la farà incontrare con l’ideatrice stessa del suo personaggio, macchina per far soldi, imponendo un modello facile e perfetto di donna. Ma Barbie è tenace e scopre i sentimenti umani, che sono un’altra cosa come l’amore e il dolore.
I Ken però ormai fieri di sè ingaggiano la lotta contro l’universo femminile e poi fra loro stessi, così che tutto torna come prima. Davvero? E se Barbie alla fine volesse diventare umana?
Film leggerissimo a base di balletti, luccichii, viaggi onirici, bicipiti maschili e occhioni bamboleggianti, citazioni filmiche (Il Padrino), è stato visto sia come esaltazione del femminismo (i dialoghi seguono un facile cliché) che come satira di una società patriarcale, molto americana, a seconda dei gusti. Insomma, Hollywood sforna un suo tipico prodotto gradevole e superficiale, ammiccando slogan ormai insistenti con un altissimo senso commerciale.
Inutile dire che la protagonista Margot Robbie è molto brava a calarsi nel personaggio della bambola di plastica “oca”, che vuole farsi umana, come pure l’intero cast. Ma l’insieme rimane superficiale, colorato, molto americano, in fondo non sincero: un mezzo per far soldi tramite un film che sponsorizza i sogni giovanili con spot variegati. È la moda imperante: un mondo in salsa rosa che vorrebbe essere umano, ma è solo una brillante e riuscita operazione commerciale in 114 minuti di sorrisi e lacrimucce. Tutto facile, e funziona: se è vero che alcune coppie sono ”scoppiate” a causa del paternalismo maschile del film.
Altra quota per il francese Fratello e sorella del regista, molto amato in patria, Arnaud Desplechin. L’odio tra un fratello scrittore e una sorella attrice esplode quando i genitori muoiono dopo un incidente e si ritrovano per il funerale. Vecchi rancori inspiegabili – e inspiegati – dividono i due: la morte li dovrebbe riavvicinare ma il cammino è lungo e disperato. Il film si apre bene con momenti di forte emotività – lui ha perso il figlio piccolo – , ma poi si perde un po’ per strada in dialoghi lunghi, momenti onirici – lui che vola sopra la sua città, Lille – e un po ‘di melodramma. L’interessante però del film sta nella recitazione di Marion Cotillard e Melvid Poupaud che riesce a dare credibilità ad un racconto, dove, al di là delle lungaggini, emerge forte la verità e la necessità del perdono, che apre ad una vita nuova e diversa, di amore. È il perdono reciproco che fa smontare l’odio che si rivela una cosa insensata, inutile e nata sul nulla. Molto interessante.

Marion Cotillard, e Melvil Poupaud al Festival di Cannes, in occasione della presentazione del film Fratello e Sorella (Photo by Vianney Le Caer/Invision/AP)