Una nave è imprigionata dai ghiacciai nella rotta verso l’Artico. Un incendio, un ferito, una creatura misteriosa, feroce, all’orizzonte. Inizia in questo modo il film di del Toro diviso in tre parti: Prologo, Il Racconto di Victor, Il Racconto della Creatura.
L’uomo ferito è il medico scienziato Victor Frankenstein che racconta al capitano la sua avventura. Ha voluto sfidare Dio, la morte e fare della scienza la propria divinità o meglio sé stesso. Così, per quanto contestato dai contemporanei, ha creato un essere “nuovo” sezionando le parti migliori dai cadaveri, finanziato da un mercante d’armi, avido e cinico (un perfetto Christopher Waltz).
La Creatura è “nata” dentro una torre altissima (la torre di Babele?), dove il medico conduce le sue sperimentazioni che paiono funzionare. La Creatura viene educata da Victor che la tratta come un essere sottomesso a lui. Il medico scienziato infatti, reduce da una infanzia traumatica con un padre severissimo che non lo ama, è in effetti come lui, un “mostro”, e non solo nel senso di essere orrendo ma anche di creatura “fuori dalle regole”. La Creatura però scopre di avere una sensibilità quando incontra Elizabeth, la nipote del medico, sposa del fratello, una persona pura, piena di amore, che sembra provenire da una dimensione diversa, limpida. Il medico se ne accorge, rifiuta la sua Creatura immortale, la vuole distruggere: è violento come suo padre. Fa paura a tutti, anche a suo fratello.
Così la Creatura vaga alla sua ricerca, conosce gli uomini, un vecchio cieco che gli dà affetto, una bambina, si domanda il perché delle uccisioni- degli animali, degli uomini fra loro – e da una parte cerca Victor, il padre per distruggerlo, dall’altra vorrebbe una creatura da amare come Elizabeth, cosa che il suo “creatore” ha rifiutato. Vaga dunque alla ricerca di Victor, lo trova.
Il regista opera alcuni cambiamenti rispetto al romanzo perché il film è di fatto una riflessione molto personale sul mondo di oggi, sulle domande dell’uomo, sui perché della vita e della morte. La fiducia cieca sulle possibilità della scienza fa sì che l’uomo si senta al posto di Dio e manipoli quindi a suo piacere la vita, creandone nuove forme (formidabile la scena della scintilla elettrica che dà vita alla “creatura”) ma andando oltre i sentimenti che anche persone “diverse” possono avere. Di qui la paura appunto del “diverso” che solo anime innocenti riescono ad amare. Perché all’amore è impossibile rinunciare come invece non hanno capito il medico o l’armatore, cioè coloro che manipolano la vita altrui. Nel film in effetti è la morte da esorcizzare, da evitare, da superare. Ed in più la rinuncia, tipicamente occidentale, alla paternità: vista come qualcosa di terribile da distruggere, o da evitare, mentre invece è insita nell’uomo, anche in una “Creatura”.
Il film, che non è affatto un horror, punta a queste e altre domande, soprattutto appunto alla accettazione del diverso, ed alla necessità di saper chiedere e ottenere perdono. Superba la recitazione degli attori, dal Victor oscuro di Oscar Isaac, alla Elizabeth di Mia Goth, alla Creatura di Jacob Elordi, giovane star che qui non è il solito”bello” ma un essere interpretato con una impressionante verità psicologica. Stupende le scenografie, la fotografia, la regia densa, inquietante, e rivolta all’attualità. Da non perdere.
Da non perdere è pure il thriller diretto dal palestinese-danese Mahdi Fleifel, Verso una terra ignota (To a Land Unknown). Due cugini palestinesi, fuggiti dal Libano e diretti in Germania, sostano ad Atene (che non è Europa -dicono – ma Arabia!). Vivono di piccoli furti, droga, trafficano per altri palestinesi ma anche siriani ed incontrano un tredicenne orfano diretto verso l’Italia a trovare una zia. Sembrano commuoversi e si danno da fare convincendo una donna greca a fingersi sua madre e ad accompagnarlo nel nostro Paese.
Il film è un ritratto della diaspora di un popolo spaesato che cerca nella fuga dalla patria un motivo per vivere: nel caso, uno dei due cugini sogna di aprire in Germania un ristorante. Ma sono due esseri “sbalorditi”, uno si droga, l’altro è immerso in traffici e sono poveri.
Il sottobosco del mondo dell’emigrazione – fatto di imbrogli, ricatti, morti e speranze – con un realismo gonfio di pathos disperato e speranzoso insieme, è indagato crudamente in un trhiller dai contorni sfuggenti, dall’incertezza sul futuro, dalla nebbia sulla sopravvivenza.
Drammatico, recitato alla grande dai due attori Mahmood Bakri, Aram Sabbah e dalla greca Angeliki Papoulia, il film diventa una sincera storia dolorosa sull’attualità, dove l’unica persona decisa è il ragazzino senza famiglia che è il solo pronto ad affrontare una nuova possibilità di vita dovunque possa trovarla. Molto bello e intenso.
Ancora un ragazzino nel film Il maestro di Andrea Di Stefano. Pierfrancesco Favino, notissimo per dare vita a maschere umane espressive, è qui un ex tennista depresso, uno sconfitto dalla vita,che allena un ragazzo promettente ( il bravissimo Tiziano Menichelli) in uno sport oggi di gran moda, sulla scia di Sinner. Sport duro, però, implacabile.
Favino impersona “il maestro” Raul Gatti, campione mai del tutto riuscito, eterno adolescente, che si rimette in gioco facendo appunto l’allenatore di Felice, il ragazzino che davvero felice non sembra, con un padre molto presente alle spalle, ma anche lui irrisolto.
Con un tono e un ritmo da commedia amara, il regista dipana il racconto sul mondo del tennis – gare, trasferte, alberghi…- ma il vero centro della narrazione (frutto della vita dello stesso regista) è il tema della paternità, arte difficile per padri e i figli. Il “maestro” che farà quasi da padre al ragazzino Felice, più adulto di lui, forse imparerà a crescere.
Regia e sceneggiatura misurate, recitazione perfetta, il film è un ritratto vitale di persone e ambienti, ma non è un lavoro neo-neorealistico o di commedia “all’italiana”, ma semplicemente un racconto molto umano, e molto attuale.