Le Madonne del Sassoferrato

A Perugia una mostra che esplora l'opera di Giovanni Battista Salvi. Un artista oggi poco noto, ma che ha saputo vedere al di là del suo tempo.
Santa Barbara (foto: Fondazione per l'Istruzione Agraria di Perugia)

Giovanni Battista Salvi (1609- 1685), nato in terra marchigiana, a Sassoferrato, non lontano da Ancona. Chi lo conosce oggi? Eppure, generazioni di cristiani hanno visto le sue immagini di Madonne e santi, estatiche come quelle di Guido Reni. Al quale, non a caso, come a Raffaello e a Domenichino, il nostro guardava. Già, perché il Sassoferrato, vissuto in pieno secolo barocco, barocco non era. Niente fantasie, angeli svolazzanti, santi macerati, popolani arguti, teatro della morte o del paradiso, negli anni di Caravaggio, Mattia Preti, Guercino e Bernini. Ma una pittura devota, colori caldi, luci fini, fisionomie purissime. Pittura della bellezza ideale, alla Reni, alla Raffaello. Arte dell’immortalità che sfida i secoli e potrebbe essere di qualsiasi epoca, forse anche noiosa per qualcuno – lo dice Vittorio Sgarbi che ne ha curato la mostra a Perugia – per la sua ripetitività e per l’abitudine del pittore, terziario francescano, di “copiare” i lavori dei grandi, da Raffaello a Perugino. Ma a ben vedere la sua pittura noiosa non è.

Prendiamo il soggetto più affrontato da un artista che vive più spesso a Roma che altrove, cioè la Madonna. E fra le tante quella ad Urbino (Galleria Nazionale delle Marche), una giovane madre che protegge il piccolo addormentato, dalle fattezze dolci come in una tela del Reni. Stupenda tela degli anni Trenta del Seicento, una delle migliori espressioni del classicismo. O quella in preghiera nei Musei di Todi, gli occhi bassi e raccolti, le mani giunte, i colori bianchi e celesti densi: un invito alla devozione, replicato lungo i secoli per il popolo. Nulla di artificiale, il leggerissimo pathos è sincero. Sassoferrato infatti non pigia sul pedale del sentimento estatico, mai. Nemmeno quando dipinge santa Caterina da Siena adorante Gesù bambino (Collezione Sgarbi). Svia la retorica, un inganno che trasforma la devozione in sentimentalismo. La domenicana è in estasi, ma non si contorce come le sante del Bernini. La sua estasi è tutta interiore: misurata, raccolta nell’equilibrio tra il cuscino rosso su cui sta Gesù, il piccolo crocifisso emergente dal buio del fondo, il giglio sul tavolo blu e le sue mani appena abbandonate. È un fremito dell’anima, accennato. Se si dovesse parlare in termini musicali, in questa come nell’arte intera del Sassoferrato, si dovrebbe usare il tempo “largo”: piano, calmo, a ondate misurate e pause quiete come nei celebri “larghi” di Haendel.

Chi osservi la sua Immacolata al Louvre – ritornata nell’abbazia di san Pietro dopo 200 anni – rimane stupefatto di come il pittore, partendo da Reni, abbia personalizzato il soggetto. Maria è una statua leggera, contornata da putti angelici dentro un alone che non è oro ma luce su luce,cioè il Verbo divino che la presenta al mondo. E ciò conferisce alla tela quel senso di astrazione, di bellezza della Bellezza (ci si perdoni il bisticcio) che è la cifra del Sassoferrato. La pacatezza del viso classico, lo sguardo in alto, non conoscono alcuna enfasi, ma solo la sincerità di un sentimento puro, naturalmente sublimato.

Perciò Sassoferrato è oltre il suo tempo. Con la calma dei soggetti religiosi o dei ritratti ci porta in una dimensione di serenità che questo terziario francescano doveva avere dentro di sé per poterla poi trasfondere nelle teoria delle sue Vergini e dei suo santi, perfetti e astratti come nei mosaici bizantini. Ma in quelli dominava il puro spirito, nel Sassoferrato è spirito e corpo immersi nella luce.

Però la rassegna perugina, incentrata sulle tele nell’abbazia di san Pietro, è un evento da non perdere.

Per gustare la misura senza misura della bellezza, anche durante il fuoco del barocco.

Sassoferrato, dal Louvre a san Pietro. La Collezione riunita. Perugia, Complesso monumentale di san Pietro. Fino al 1/10 (catalogo Aguaplano).

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