Le lacrime e la pazienza orientali

Per la prima volta la comunità cinese esce a vita pubblica, in modo compatto, per manifestare il suo lutto e le sue richieste alla politica. Un dolore pacato che chiede accoglienza e rispetto
Torpignattara
Margherite gialle e bianche. Sono i fiori che i cinesi offrono ai defunti. Sono fragili come la vita e ricchi di petali come le opportunità da sfogliare, quelle di cui sono stati privati Zhou Zheng e la figlia Joy. Le foto gioiose esposte dai loro concittadini contrastano con la violenza brutale che ha spezzato le loro esistenze la settimana scorsa nel quartiere di Torpignattara a Roma. Autori del gesto due cittadini di origine marocchina ancora ricercati dalla polizia, che avevano tentato una rapina conclusasi tragicamente.  Il grido in cinese vogliamo sicurezza, no alla violenza, ripetuto all’infinito come una lamentazione è stato il canto funebre intonato lungo le strade della fiaccolata che ha visto sfilare circa cinquemila cinesi. Un’adunata che ha sorpreso i membri stessi della comunità. «I cinesi sono pazienti – spiega Cao – e non amano queste forme di manifestazione pubblica, ma a tanta violenza non si poteva rispondere con il silenzio».

 

A piazza Vittorio mentre ci si raduna per cominciare la marcia due ragazze inconsolabili si asciugano le lacrime. Gli uomini invece sono concentrati nella lettura del giornale in mandarino: a tutta pagina racconta dell’omicidio con foto a colori. Si distribuiscono candele e fiori. In ginocchio centinaia di cinesi con un pennarello siglano la loro identità su un lenzuolo bianco: vogliono consegnar queste firme alla famiglia per testimoniare la loro vicinanza.

In mezzo qualche sparuto romano. Teresa abita proprio a piazza Vittorio e si è unita alla fiaccolata per conoscere la comunità. «Sono miei vicini, ma è così difficile stabilire un rapporto. Oggi vorrei proprio che sentissero la vicinanza di noi romani».

 

A Porta Maggiore, Kai, 24 anni, cede ad un amico l’asta che regge uno striscione in cinese e grida con tutto il fiato: Vogliamo la pace no alla violenza! «Siamo qui anche da Prato, Napoli, Milano. Abbiamo subito altre aggressioni e abbiamo taciuto. Difficilmente un cinese denuncia un sopruso alla polizia, ma di fronte alla morte di una bambina di nove mesi usciamo allo scoperto per dire a tutti che siamo una presenza e che la violenza deve smettere».

Una presenza che impressiona non solo per i numeri ma anche per la compostezza. Sfila anche  il sottosegretario agli affari esteri Staffan de Mistura, tenendo per mano la sorella di Zhou. Poi c’è qualche maghrebino, qualche signora in chador, dei rappresentanti della comunità cingalese e sudamericana. Maria, cinese, da 15 anni in Italia presiede l’associazione SOS Cina. Soffre per l’isolamento in cui la sua comunità si trova a vivere. «I nostri figli studiano qui, parlano l’italiano, aprono delle attività ma restano sempre stranieri anche dopo vent’anni».

Ting è sposata con un italiano, felicemente tiene a precisare. Vive in Italia dall’età di quattro anni, ora ne ha 31. «Questo corteo è qualcosa di grandioso per tutti noi. I negozi di piazza Vittorio hanno chiuso per permettere agli operai di partecipare. E quelli che sono rimasti aperti hanno mandato metà del personale alla manifestazione. Per la prima volta ci facciamo portavoce di problemi e necessità che sono di tutti gli italiani. Non sono solo i cinesi a dire basta alla violenza».

 

Lungo il percorso, si uniscono altri striscioni, altri fiori. Il serpentone sempre più lungo si comprime per passare tra le stradine che conducono alla casa di Jooy e di Zhou. E’ la prima volta che qui si manifesta: la gente esce sui balconi tra l’incuriosito e il sospettoso. Molti erano ignari. Fotografi e cameraman cercano di rubare l’attimo di commozione o la rabbia, ma di quest’ultima c’è poca traccia. Sono i ricordi a riempire il brusio del corteo mentre le luci fioche delle candele illuminano il volto di una mamma con un bimbo in braccio addormentato e quello di Antonietta che prova a sostenerlo. La politica con i suoi rappresentanti si è aggiunta a fine adunata, ma nessuno vuol sentire parole o proclami. Sono stonati. Ci vogliono i fatti. Qui può consolare solo la giustizia e l’accoglienza di un dolore pacato ma non meno pesante da portare. “Accada quel che accada anche il sole del giorno peggiore tramonta”, dice un proverbio cinese. Ma i cinesi di Roma ora aspettano sul serio l’alba del giorno dopo.  

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